
Dal fulmine al berillo, il fascino del bagliore – La Domenica di Repubblica
Il segreto è nella luce. Sta tutto qui il fascino esercitato da sempre dagli oggetti luccicanti sulla fantasia degli uomini
delle culture e delle civiltà più diverse. Quello che si rivela nello splendore dell’oro, nello scintillio dei diamanti, nella traslucenza multicolore delle gemme, nella magia degli specchi, nello sfolgorio sontuoso delle sete, nell’abbagliante policromia delle paillettes, nel lampeggiare seducente del lurex, non è altro che il mistero del bagliore. O, per dirla con Stanley Kubrick, l’irresistibile richiamo dello shining, di una luccicanza che sembra avere in sé qualcosa di soprannaturale.
Risplendere e riflettere. Le due proprietà degli oggetti preziosi sono infatti strettamente legate alla riproduzione dell’immagine e soprattutto della luce, sorgente stessa della visione. È questo che spiega, almeno in origine, la
credenza così diffusa nella natura magicosacrale di oro, pietre preziose e oggetti sfavillanti: la loro capacità di catturare la luce e di ridarle vita, di farla letteralmente rilucere. È proprio questo, del resto, il significato letterale del termine “brillare” — splendere di luce tremolante e viva — e deriva dal berillo, la splendida pietra dai riflessi verdi cui nel mondo antico erano attribuiti poteri straordinari. Come quello di guarire le malattie degli occhi o di evocare
gli spiriti delle tenebre. Coniugando, in altre parole, la vista e la visione.
Non a caso gli dèi e i sovrani, incarnazioni supreme del potere, hanno sempre avuto un rapporto così stretto con tutte le materie che imprigionano la luce e ne riflettono l’energia vitale. Autentici specchi di una potenza soprannaturale.
L’imperatore della Cina, raccontavanonel Seicento i missionari gesuiti, non scopriva mai il suo volto e quelle rarissime volte che si mostrava ai sudditi, celava il viso dietro una cascata di fili di perle e di pietre preziose. Ed era proprio lo scintillio delle gemme prodotto dal movimento della testa del sovrano a significare la presenza e la volontà di una potenza infinita che non si manifestava se non per lampi di luce. Come la folgore, come le stelle, come la luna. E come il sole col quale dèi e regnanti si identificavano fino al punto da rivestirsi completamente d’oro e di gemme.
Nell’antico Egitto il corpo dei faraoni era considerato della stessa sostanza di cui era fatto il sole, ovvero d’oro, il re dei metalli, emblema di incorruttibilità e di perfezione, e proprio di oro erano rivestite le mummie regali. Gli imperatori incas erano creduti incarnazioni del dio solare Viracocha. E sull’analogia simbolica con il re degli astri, Luigi XIV, passato alla storia come il Re Sole, costruì un’autentica mitologia al punto da indossare, nelle sontuose feste di Versailles, una maschera d’oro a forma di sole radioso. Per una analoga proprietà transitiva le immagini sacre e i paramenti rituali sono spesso dorati o tempestati di gemme: dai simulacri di Budda, alle icone bizantine,
dalle aureole dei santi, agli sfondi sfavillanti di Cimabue e di Duccio di Buoninsegna, dagli idoli di giada indiani a quelli di cristallo aztechi. Simboli di illuminazione, di immortalità, riflessi terreni della luce celeste. Come lo specchio che insieme alle perle costituiva l’attributo sacro dell’imperatore del Giappone.
Qualcosa di quest’aura sacrale resta persino nel nostro culto, ormai secolarizzato, dell’oro, dei gioielli, e di “tutto quel
che luce” — compresi abiti e make up luminosi — che continuano a incantarci, proprio come gli specchietti e le perline colorate incantavano i selvaggi. In quest’epoca di narcisismo diffuso l’aura luminosa serve soprattutto a far risplendere noi stessi, a consacrare la nostra immagine. Realizzando così il senso più profondo del termine look. Che ha la stessa etimologia di luce e di luccicare. Come diceva Simone de Beauvoir, questi oggetti scintillanti danno il tocco finale alla nostra trasformazione in idoli di noi stessi. Idoli fragili, sedotti dal rilucente glamour dello stagno di Narciso. [Download PDF]
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