
Tutti i volti dell’homo italicus – la Repubblica
Dario Fo se n’è andato. Ma questa volta la carretta dei comici non ci riporterà indietro che il ricordo di uno dei grandi antropologi dell’Italia. Come lo furono prima ancora di lui Roberto Rossellini, Federico Fellini, Pietro Germi. E, in altra forma, Pasolini, Calvino e Sciascia. Ma l’originalità di Fo è stata quella di guardarci da lontano e di grattare il fondo del carattere nazionale incrostato nelle situazioni e nei personaggi della Commedia dell’Arte. Per mostrarne l’aderenza perfetta alle maschere del presente. Facendoci vedere chi oggi ha preso il posto di Pulcinella, Arlecchino e degli infiniti Zanni, servi intelligenti e sciocchi, troppo furbi e inemendabilmente analfabeti che affollano le nostre cronache. Spettacolo dopo spettacolo Fo e Rame hanno fatto la tac all’homo italicus. Con le sue generosità e sbruffonerie, iperboli e precipizi, malinconie e ubbie, esaltazioni e perversioni. Le discese ardite nella visceralità più scatologica. E le risalite vertiginose nell’euforia giullaresca. Che faceva tintinnare i campanelli del suo berretto a sonagli. La sua non è mai stata semplice satira politica, come hanno detto in tanti, nel tentativo di iscriverlo a questo o quel partito. Ma qualcosa di molto più profondo che ci riguarda un po’ tutti, proprio in quanto incarnazioni attuali e inconsapevoli di quei tipi solo apparentemente arcaici. Ma in realtà senza scadenza.
In fondo Dario Fo ha smascherato gli italiani nel momento stesso in cui li metteva in maschera. Facendo balenare nelle astuzie degli Zanni, nelle furbate impunite di Pulcinella, nell’intraprendenza di Arlecchino la sagoma familiare dei furbetti del quartierino. Nella prodigalità seduttiva di Pantalone il mistero buffo di Berlusconi. E nella saccenteria intraprendente di Balanzone l’algoritmo gaglioffo e talentuoso del Made in Italy.
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