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“La mortadella vegana non è il simbolo di una passione, ma l’emblema di una rinuncia”. Ne ho parlato domenica sul quotidiano La Stampa di Torino

12 Dicembre 2016

Una mia analisi sul quotidiano La Stampa di Torino di ieri. Buona lettura!

«La mortadella vegana non è il simbolo di una passione, ma l’emblema di una rinuncia. È una scorciatoia linguistica che nulla ha a che vedere con la storia dell’alimentazione».
Pare assurdo a Marino Niola, ordinario di antropologia e direttore del centro di ricerche sociali sulla dieta mediterranea dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, accettare «definizioni che non hanno nulla di nuovo e nascondono un desiderio che, a conti fatti, rimane».

Professore, perché non si riesce a trovare altri nomi per questi prodotti?
«Sono dei conglomerati alimentari che non hanno un’identità. Ecco perché, per fare breccia sui consumatori, è necessario rievocare cibi noti a tutti, che stuzzicano il palato. L’industria che li produce ha scelto di giocare di rimessa, cavalcando i timori dei consumatori. Erano altri tempi quelli in cui nascevano i frollini e i sofficini. Oggi questi alimenti sono visti come una minaccia: eccola, la sintesi delle nostre paure».

Mangiamo fiorentine vegane per non ammalarci?
«Le abbuffate del dopoguerra erano l’emblema di una società che non viveva con la psicosi che il cibo provocasse malattie. Oggi il consumatore è guardingo e preferisce acquistare un alimento in cui manca qualcosa: è così per il lattosio, per il glutine, per i grassi animali e per l’olio di palma. Così le aziende ci fanno comprare quello che non c’è».

Come si rinuncia agli alimenti di origine animale senza ricorrere a queste pietanze?
«Riscoprendo l’essenza della dieta mediterranea e dentro ci metto pure la carne: se consumata con parsimonia, fa bene alla salute».

Marino Niola
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