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Chef-Tv ultimo atto – D la Repubblica

17 Dicembre 2016

Basta con i cuochi fatui. La gente comincia a non poterne più di cibo parlato, fotografato, filmato, postato. Pornografato. Comincia a essere stufa del foodtainment, l’intrattenimento culinario dei vari Master Chef e altri spignattamenti catodici. Insomma, si sta sgonfiando la bolla gastronomica che ha trasformato i grandi artigiani della cucina in icone mediatiche, maître à penser, master & commander dei nostri gusti e disgusti. Una parabola che ricorda quel che è accaduto negli anni Ottanta, quando i sarti furono a loro volta trasformati in stilisti, poi in artisti e infine in opinion leader. E oggi non se li fila più nessuno.

La prima responsabile di questa deriva gastromaniaca è la tv che, negli ultimi anni, è diventata tutta una prova del cuoco, una lotta al coltello tra concorrenti che non fanno altro che spadellare, scodellare, setacciare, marinare, strapazzare, stemperare, grigliare, sobbollire, farcire, guarnire. E impiattare! Così il piccolo schermo ha fatto da cartina di tornasole, ma anche da detonatore, della trasformazione del cibo in una sorta di pensiero unico. Passione e ossessione, sfizio e vizio, cultura e paura. Tanta paura!

Anche perché i palinsesti sono assolutamente ciclotimici, bipolari come dottor Jekyll e Mr. Hyde. Di giorno ci seducono, di notte ci terrorizzano.  Nella fascia mattutina impazzano programmi che ci insegnano a cucinare, a desiderare, a degustare. In seconda serata, in coda ai talk show, nutrizionisti improbabili evocano incubi allergenici e fantasmi epidemici, come latte e glutine. E scagliano “fatwe” salutiste, nella maggior parte dei casi senza fondamento scientiico.  Si reggono semplicemente sull’analfabetismo di chi le lancia e la buona fede di chi ci crede.

A questa idea allucinogena dell’alimentazione, un po’ cheap un po’ chic, un po’ etica un po’ dietetica, fa riscontro un calo quantitativo e qualitativo della spesa alimentare, tornata ai livelli di 25 anni fa. Lo testimonia una recentissima ricerca Censis, intitolata Gli italiani a tavola.

Tornano le differenze di ceto, da cui emerge che la lista della spesa si accorcia drasticamente. Consumi in calo del 12,2% e nelle famiglie più povere addirittura del 28%. Mangiamo tutti meno, chi ha un reddito basso peggio. Meno frutta e verdura, pesce e pasta. E meno carne rossa. Su bistecca e costolette pesano l’anatema vegetariano e vegano e, in più, l’incauta sparata dell’Oms di un anno fa, che ha spaventato oltremisura i consumatori. Come dire che i ricchi mangiano meno carne per ragioni salutari, morali e ambientali, mentre i poveri ci rinunciano per ragioni di budget. Insomma, da una parte il vorrei ma non posso, dall’altra il potrei ma non voglio.

I ricercatori del Censis hanno definito questa forbice Food social gap: se gli Italiani si sono messi a dieta, i nutrizionisti non c’entrano. È stata la crisi a far stringere la cinghia. In questo scenario non c’è più posto per la fiera delle vanità gastronomiche, la spending review ci costringe a far quadrare i conti e ci induce ad abiurare i falsi dèi del glam food.

Il rimedio più efficace contro questa cibomania degenerativa è la valorizzazione dei veri protagonisti della nostra gastronomia: i produttori di cibo buono e sano, i cuochi che hanno resistito alle lusinghe del format. Gente che in quel che fa ci mette la faccia e non l’immagine. Non personaggi ma persone.

Marino Niola
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