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LA FÒCARA di Novoli? Una vecchia conoscenza, inaspettatamente, per Marino Niola, docente di Antropologia dei simboli all’università Suor Orsola Benincasa di Napoli ed editorialista di Repubblica. “Ci sono stato un paio di volte durante gli anni Settanta”, e non da turista, confida l’antropologo, che spiega: “Ho vissuto qualche tempo in Salento, tanto che mi laureai in Filosofia proprio all’Università di Lecce”. Fatto sta che il 15 gennaio Niola sarà a Novoli per tenere una lezione sulla cultura dei riti del fuoco: “Sarà un racconto nel quale – anticipa – parlerò naturalmente anche di sant’Antonio Abate, uno dei santi più simpatici ma anche più importanti, visto che è del Prometeo cristiano che si parla”. Una delle occasioni di approfondimento nel sempre più ricco cartellone di eventi che – dall’installazione di Daniel Buren al concerto di Vinicio Capossela – faranno anche quest’anno del gigantesco falò simbolo della festa di Sant’Antonio, al quale secondo tradizione sarà dato fuoco la sera del 16 gennaio, un pretesto per una kermesse culturale a 360 gradi.
Professore, quale ricordo conserva della festa?
“Un rituale di grande suggestione, sottolineato dalle stesse mastodontiche dimensioni del falò, nel quale la comunità era molto protagonista del fenomeno. Adesso l’impressione è che il rito abbia una componente spettacolare sempre maggiore che lo trasforma in un attrattore turistico e, dunque, un veicolo di sviluppo economico”.
Che cosa rappresenta la Fòcara?
“Un antico fenomeno folclorico legato al mondo contadino che diventa una macchina spettacolare moderna. È la trasformazione della cultura popolare in cultura pop”.
Dove sta la differenza?
“Nella cultura popolare il fenomeno era circoscritto, local per dirla col lessico di oggi: la comunità ne era attrice, spettatrice e fruitrice. Quello della Fòcara era un rito e uno spettacolo per sé. Oggi, invece, lo si fa anche per gli altri e arrivano migliaia di persone da lontano. Succede perché il mondo globale è assetato di segni ad alta definizione”.
In che senso?
“Tutto è “medio”, tutto si somiglia, mentre la Fòcara assomiglia solo a se stessa. Diventa glocal, globale e locale insieme, corre sui media, rimbalza sui social e fa circolare così un po’ di Salento nelle vene del mondo. Sta diventando, o forse può diventare, la versione winter della Notte della Taranta”.
Ed è un bene o un male?
“È un bene, quello che conta è come vengono governati questi fenomeni che, in ogni caso, hanno un grande merito se riescono a tenere insieme le diverse dimensioni ovvero quella identitaria della comunità locale e quella turistica. Purché, beninteso, quest’ultima non si risolva in un’invasione barbarica “.
A Novoli, intanto, si è scelto di rinnovare la Fòcara attraverso il dialogo con le arti. È sufficiente per tenere lontano i “barbari”?
“Serve, se non altro, a selezionare una domanda turistica profilata, interessata all’offerta culturale. Chi arriva a Novoli non viene a cercare sballo, ma ballo casomai”.
Ma questi processi di trasformazione di una festa rischiano di mettere nell’angolo la tradizione, disperdendone i tratti identitari?
“Assolutamente no, anche perché la forza di una tradizione sta nella sua capacità di rinnovamento. Perché tradizione, non dimentichiamolo, vuol dire trasmissione”.
Restyling a parte, che cosa ci ricorda la Fòcara?
“L’importanza del fuoco, intanto. È quello che ci consente di trasformare la natura, è l’acceleratore del progresso ed è anche il simbolo della comunità e del focolare. È quello che ci scalda sul piano reale, fisico e simbolico. E di tutto questo sant’Antonio Abate è l’incarnazione perfetta”.
In quali termini?
“È l’amico degli animali e dei più poveri. È quello che lenisce le sofferenze dei contadini, perché dà il fuoco e una volta era il santo guaritore per antonomasia. Guariva gli uomini dalla malattia che porta il suo nome, il fuoco di sant’Antonio. E qui veniamo all’elemento essenziale che è quello del maiale. È il compagno del santo, quello che lo aiuta a rubare il fuoco ai diavoli. Secondo le leggende mette il codino in un tizzone infernale e porta la scintilla del fuoco agli uomini, ma questo ci riporta anche a qualcos’altro: il fuoco di sant’Antonio si curava con un unguento fatto col grasso del maiale. E c’è, infine, un terzo elemento che dà l’idea del carattere del santo: un santo tollerante che, essendo amico del maiale, non è ostile ai piaceri della carne. Non per caso il Carnevale si apre nel giorno di sant’Antonio Abate. A sottolineare, una volta di più, che non stiamo parlando di un santo bacchettone”.
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