
Pigri in settimana, opulenti nel week end – D la Repubblica
La cucina quotidiana diventa sempre più spartana. Mentre il fine settimana si trasforma in un happening gastronomico. È in atto un vero e proprio passaggio epocale che sta cambiando il nostro modo di mangiare e di vivere. Nei giorni feriali è boom del cibo a domicilio, dalla pizza alla cena gourmet ordinata sullo smartphone. Nei week end e festivi, invece, non facciamo che condire, sobbollire, farcire, battere, sciogliere, fondere, sminuzzare, pestare, tritare. A rivelarlo è una recente ricerca Nielsen che conferma il declino della cucina fai da te. Soprattutto fra le donne lavoratrici e i Millennial. Gli stessi che però consumano compulsivamente corsi di cucina, tutorial e programmi televisivi foodisti. Uno scenario bipolare, schizzato tra realtà e format.
Insomma gli italiani non hanno più voglia di cucinare. Tornano a casa affamati, stremati, stressati. Hanno sempre
meno tempo e sono sempre meno disposti a impiegarlo per mettersi a spignattare. Anche perché la tribalizzazione alimentare della società ha moltiplicato gusti e disgusti, preferenze e esigenze, stravaganze e intolleranze, allergie e idiosincrasie. E per mettere d’accordo tutta la famiglia ci vorrebbe una brigata da grande ristorante. O un file excel.
Così ci si arrangia come si può. Piatti pronti, insalate già lavate, sughi in barattolo, pizze surgelate, lasagne riscaldate. Cibi precotti per lavoratori stracotti. Che durante la giornata si arrabattano tra quello che offrono bar, pizzerie, mense aziendali, tavole calde e supermercati. Ingollando a tempo di record panini, insalatone, cotolette e zuppe frozen. Perché il tempo è denaro perfino durante la pausa pranzo. Che è diventata sempre più minimale, interstiziale,
interinale. Funestata da mail, sms, post e chat. E comunque vissuta con un certo senso di colpa, come una prova di renitenza al multitasking. E a cena le cose non vanno molto meglio, perché il nostro bioritmo last minute ci fa vivere tutto come una perdita di tempo. Fare la spesa, lavare le verdure, mettere i legumi a cuocere e gli stracotti a stracuocere sembrano ormai attività premoderne. Roba da Nonna Papera.
Meglio un bento di sushi preso al volo in pescheria, una mattonella di pasticcio della gastronomia, un vassoietto di polpettine vegan da sbocconcellare sdraiati sul divano con un centrifugato di verdura, per mettere d’accordo bisogni nutrizionali e super io alimentare. Etica e dietetica. È il trionfo del cibo prêt-à-manger che, come fu a suo tempo per la moda pronta, ha il vantaggio indiscutibile di essere molto più pratico dei nostri vecchi costumi. Così mettersi ai fornelli assomiglia sempre di più ad un’impresa epica, un gesto performativo, una messa in scena di sé. A una narcisistica prova del cuoco. Narrata, fotografata, spettacolarizzata, iconizzata, postata. Ma poco praticata. In sostanza più detta che fatta.
Con la sola eccezione del week end e delle feste comandate. Quando la performance culinaria diventa esibizione, ostentazione. Tagliare, affettare, stappare, spignattare, spadellare, scodellare, macerare, marinare, grigliare. Una gastronomia da parata. Un cooking show rigorosamente unisex, con le due metà del cielo che si contendono i fuochi e si sfidano a colpi di tataki di tonno, di Japanese cotton cheesecake, di riduzioni al balsamico e di cotture a bassa temperatura, di fronte ad amici, parenti e discendenti educati alla scuola di Master Chef. Palati avvezzi a ogni sottigliezza, frequentatori di restó e bistró, patiti di muffati e stellati, esperti di barrique e bollicine, degustatori di crudità e tipicità. È quel che resta della tradizione al tempo della monoporzione.
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