
Il Paese immobile costretto a un’eterna rincorsa – la Repubblica
Il lavoro nobilita l’uomo. Ma soprattutto mobilita l’italiano. Protagonista involontario di un’odissea quotidiana. Fatta di spostamenti e sbattimenti, incolonnamenti e esaurimenti. Corse e rincorse. Discese ardite e risalite tra un tram e una metro, latitanti o insufficienti. E soprattutto costretto a passare più di un’ora al giorno nella solitudine della propria auto. Imbottigliato nel traffico. In una condizione di cattività che incattivisce. Perché aumenta la sensazione di essere soli e abbandonati. Insomma ci sentiamo lontani da tutto. Non solo dalla fabbrica o dall’ufficio, ma anche dalle istituzioni che appaiono sempre più distanti dai nostri bisogni e aspettative. Il risultato è che ci sentiamo sempre più isolati in una periferia dell’anima, dalla quale è difficile uscire. E viviamo il pendolarismo giornaliero come una fatica di Sisifo. Una spola coatta che si mangia il nostro tempo, lo rende più corto e febbrile rispetto a quello degli altri europei. Come se la nostra esistenza si svolgesse su un tapis roulant. Correre, correre per restare fermi allo stesso punto. Forse per questo, quando andiamo in Paesi come la Germania, la Francia, il Belgio, abbiamo l’impressione che la vita scorra più regolarmente, proprio come i grandi fiumi del Nord. E che non sia necessario affannarsi per inseguirla come facciamo noi. Di fatto, per compensare l’assenza di mobilità sociale, siamo costretti a una snervante mobilità individuale. Perché i servizi, i trasporti, le commodity che mancano dobbiamo sostituirli schizzando di qua e di là. E il più delle volte inventarceli col sudore della fronte.
Il paradosso antropologico è che, nonostante tutto, rimaniamo i più ottimisti d’Europa. Perché allo stato attuale non possiamo che migliorare? Forse. Ma anche perché riusciamo sempre a vedere il bicchiere mezzo pieno. Perfino se l’acqua non c’è ancora. E così continuiamo imperterriti ad affannarci nel presente correndo incontro al futuro.
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