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Che fine ha fatta la vecchia critica della ragion pura? – la Repubblica

28 Luglio 2017

Se i filosofi si misurassero dalla barba, il primo posto spetterebbe alle capre. Sembra una battuta di Woody Allen invece è di Luciano di Samosata, uno dei più irriverenti e corrosivi scrittori dell’antichità. Ma oggi la sua rasoiata non avrebbe più ragion d’essere, visto che i filosofi sono sempre meno barbuti e barbosi. E soprattutto hanno cambiato look, share e target. Sono diventati piacioni e mediatici.

Se sia un bene o se sia un male se lo chiede Stuart Jeffries in un articolo appena uscito sull’ultimo numero della rivista FP, Foreign Policy, e intitolato La filosofia tedesca è diventata virale. Sarà la sua rovina?. L’autore racconta la mutazione antropologica dell’ultima generazione di pensatori germanici. Che sta avvicinando sempre di più la severa disciplina di Hegel e di Schopenauer al grande pubblico. E per raggiungere il suo fine usa qualunque mezzo. Dagli show televisivi ai Ted Talks, oltre a una fiorente produzione editoriale di Instant book che trattano dei massimi sistemi con il minimo sforzo.

I due principali imputati sono il filosofo, giornalista e scrittore Richard David Precht e l’esponente del nuovo realismo Marcus Gabriel. Al primo viene addebitato un furore presenzialistico incontenibile che avrebbe toccato l’apice, o il fondo, quando si è presentato al format televisivo Chi vuol essere milionario non in veste di ospite ma di concorrente. Ha portato a casa sessantaquattromila euro ma ha incassato una bordata di critiche. La sua partecipazione a un quiz così globalpopolare è apparsa a molti il segno che effettivamente nella filosofia tedesca qualcosa si è inceppato. Peter Sloterdijk lo liquida come divulgatore di professione. E in effetti il suo best seller Ma io chi sono? ( ed eventualmente quanti sono?). Un viaggio filosofico (Garzanti) è stato tradotto in trentadue lingue e ha venduto più di un milione di copie. E il suo programma televisivo sul canale ZDF supera il milione di spettatori a puntata. Diverso il caso di Marcus Gabriel. Il suo libro Perché non esiste il mondo (Bompiani) che nel 2015 gli è valsa l’assunzione nello star system del pensiero viene promosso da Jeffries, se non a pieni voti almeno con un sei politico.

Siamo a distanza siderale dalla sostanza e dall’immagine che abbiamo della filosofia germanica, con i suoi pensatori pensosi e i loro titoli dissuasivi, qualche volta ostilmente ostici. Come il kantiano Prolegomeni ad ogni futura metafisica che possa presentarsi come scienza. Suona molto più accattivante l’ultima opera di Gabriel, Non sono un cervello. Filosofia della mente per il ventunesimo secolo. Che, al di là di un vago sospetto di megalomania, suona come una sonora e tutto sommato convincente smentita a coloro che negano alla filosofia la possibilità di parlare alle masse.

Certo, lo snobissimo Adorno avrebbe guardato con orrore questa frana teoretica, questo smottamento categoriale, che avrebbe giudicato più da estetisti che da estetologi. E d’altra parte, forse, l’inizio della fine è stato proprio quel 22 aprile 1969 in cui l’autore della Dialettica dell’illuminismo venne interrotto mentre teneva lezione all’università di Francoforte da un manipolo di contestatori fra cui tre ragazze a seno scoperto che lo cosparsero di rose e tulipani. L’austero Theodor prese cappello e cappotto e chiuse con l’insegnamento. Questa Busenaktion, questa fenomenologia delle tette, era l’embrione della svolta pop della filosofia teutonica. Che oggi viene venduta dall’industria culturale come un brand. Affidabile come la BMW, Deutsche Bank e Adidas. Insomma un Made in Germany della speculazione.

Marino Niola
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