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Cebo barbuto. Sgusciare noci ci è sempre piaciuto – il Venerdì di Repubblica

18 Agosto 2017

Anche le scimmie hanno le loro tradizioni. Non si tratta del pranzo di Natale, ma pur sempre di usi alimentari. Che vengono tramandati di generazione in generazione, proprio come facciamo noi con le ricette della nonna o con le tecniche della pesca. A rivelarlo è stata la scienziata Elisabetta Visalberghi, direttrice dell’Istituto di scienze e tecnologie della cognizione del Consiglio nazionale delle ricerche di Roma (Istc-Cnr). E il suo studio si è guadagnato la copertina della rivista l’Accademia delle scienze americana Pnas (Proceeding of the National Academy of Science). La primatologa italiana, insieme a un gruppo di ricerca internazionale, ha studiato una popolazione di cebi, con i quali noi umani siamo imparentati, avendo preso strade evolutive diverse circa 35 milioni di anni fa.

Non si tratta di scimmie antropoidi, come gli scimpanzé e gli oranghi, che ormai siamo abituati a umanizzare e a considerare come nostri cugini naturali. Un po’ troppo pelosi ma comunque di famiglia. Un esempio per tutti, Cita, che ancora oggi negli spot pubblicitari porta la prima colazione a Tarzan e ha il merito di averci aiutato a digerire la teoria dell’evoluzione. Assieme a Grape Ape, il gorilla lilla, e agli intelligentissimi ominidi del Pianeta delle scimmie che sono, a tutti gli effetti, filosofi con la fronte bassa. Dei primati da Guinness. I cebi barbuti (Sapajus libidinosus) invece a prima vista non ci somigliano per niente.
Con i loro dentoni sporgenti, gli occhi ravvicinati, il naso schiacciato e la testa coperta da una spazzola di peli da preistoria del punk. Eppure l’apparenza inganna. Perché se cominciamo a osservarli a lungo, finiamo per perderci in loro. E il confine che ci separa diventa sempre più poroso, friabile, incerto. Quelle loro barbe da alchimisti medievali, quelle trico-tonache da cappuccini ci parlano oscuramente di noi. Di quella unità profonda che il tempo ha confuso ma non disperso. Di quella origine remota che ci fa insieme parenti e differenti.

Il merito di Visalberghi e dell’équipe del progetto internazionale EthoCebus, che alterna le ricerche nei laboratori romani con l’osservazione sul campo, in particolare nella Fazenda Boa Vista nel Nordest brasiliano, è di aver fornito le prove scientifiche che questi primati hanno una tecnologia. La apprendono imitando i padri e la trasmettono ai loro figli. Se non è tradizione questa!

Come rivela lo studio, le attività degli adulti catturano l’attenzione dei giovani, che provano a imitare i gesti dei grandi. In particolare la tecnica sopraffina con cui i cebi rompono le noci di palma usando pietre più o meno grandi a seconda delle dimensioni e della durezza del frutto. All’incirca quel che facciamo noi con lo schiaccianoci, quando moduliamo la pressione per rompere il guscio senza polverizzare i gherigli. E non si creda che sia una cosetta alla portata di tutti. Per ottenere i primi successi ci vogliono anni di tirocinio formativo. E non tutti ce la fanno. Ci sono esemplari che anche a sette anni, quando la gran parte dei loro coetanei sono ormai dei superesperti, accusano un ritardo “scolastico” imbarazzante. Fra l’altro gli adulti non mostrano nessun accanimento pedagogico. Non seguono i giovani passo dopo passo. Semplicemente vengono guardati e imitati. Sono dei veri maestri e non degli insegnanti. Dei modelli e non dei tutor. E la nostra scuola avrebbe molto da imparare da loro.

Il meccanismo messo in luce, per quanto possa sembrare relativamente semplice, conduce a una conclusione importante. «Nei cebi» spiega Visalberghi «le interazioni sociali influenzano l’attenzione, la memoria e lo stile di chi impara.

La presenza di individui esperti, che si comportano secondo i canoni del gruppo, influenza il comportamento dei giovani.
La trasmissione di comportamenti tradizionali non è dunque una prerogativa umana». Alla faccia dell’antropocentrismo e di chi crede che la cultura sia una esclusiva di Homo sapiens.

Fra l’altro queste scimmie potrebbero anche fare a meno delle noci. Se le mangiano non è per una questione di pura sopravvivenza, ma perché per loro è un piacere. In effetti sono onnivore. E il loro menù è molto vario. Fiori, radici, uccelli, roditori, iguane, serpenti, larve di insetti. Adorano il mango e sbucciano la frutta con una cura voluttuosa, strofinandola sulla corteccia degli alberi come facciamo noi quando ci prepariamo una macedonia e abbiamo già l’acquolina in bocca. Insomma oltre a mangiare per vivere, i cebi vivono per mangiare. E in questo sono più avanti di molti umani. Lo avevano intuito grandi pensatori come Jean-Jacques Rousseau, che molto prima di Darwin e della sua teoria dell’evoluzione, si interrogava sulla nostra parentela culturale con i primati.
Perché era convinto che guardarci nello specchio animale ci potesse rivelare molto della nostra natura.

Certo, a guardare le immagini della ricerca ormai decennale di Elisabetta Visalberghi  (www.ip.usp.br/ethocebus),
che sono passate su Superquark, Bbc, National Geographic, l’effetto è veramente affascinante e straniante. Perché ci mostra quanto di cebo c’è in noi e quanto di noi nei cebi. Aveva ragione Nietzsche a dire che ancora oggi l’uomo è più scimmia di qualsiasi scimmia. Abbiamo perso il pelo, ma non il vizio.

 

Marino Niola
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