
L’alibi della razza buono per cretini e assassini – il Venerdì di Repubblica
«La nostra razza bianca è in pericolo». L’infelice esternazione di Attilio Fontana, candidato del centrodestra alla presidenza della Regione Lombardia, ha scoperchiato il vaso di Pandora del razzismo. Sia di quello latente, sia di quello manifesto. Ma, al di là delle polemiche legate all’attualità elettorale, emerge una questione che all’inizio è passata sotto silenzio. Ed è la clamorosa sproporzione tra l’assoluta inconsistenza scientidel termine razza e la sua straordinaria persistenza storica e politica. Perché gli scienziati hanno ampiamente dimostrato che non esiste alcun nesso tra le etnie e i comportamenti umani. Che dipendono dalla cultura e dalla storia, non dalla biologia.
Fra l’altro la parola razza, dall’antico francese harraz, in origine indicava gli allevamenti di stalloni. Il concetto è stato applicato agli uomini solo a partire dalla metà dell’Ottocento da Joseph Arthur de Gobineau, autore del Saggio
sull’ineguaglianza delle razze umane, bibbia del razzismo moderno. Che ha fornito un alibi teorico, buono per cretini e assassini. Il vero problema è che le smentite scientifiche non sono in grado di scalfire la forza di questo mito politico, che ha sempre lo scopo di trasformare le differenze in disuguaglianze.
Forse perché fornisce un fondamento falsamente oggettivo, come il colore della pelle, alla paura dell’altro e al desiderio di minorizzarlo, di criminalizzarlo, di marginalizzarlo. O addirittura di eliminarlo. Ecco perché la razza è un male oscuro, che incuba nelle viscere della società e si riaffaccia periodicamente alla ribalta della storia. Perché funziona come un primordiale algoritmo dell’esclusione.
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