
Se il calcio unisce quelli che la politica divide – il Venerdì di Repubblica
Mohamed Salah diventa un antidoto contro la guerra di civiltà. Nei giorni scorsi le scarpe del bomber egiziano, che ha trascinato il Liverpool alla finale di Champions, sono state esposte al British Museum, insieme ai capolavori archeologici dell’antico Egitto.
Al termine di una stagione trionfale, l’ex attaccante della Roma è diventato un fenomeno internazionale, scalando le vette dell’immaginario islamico.
Uno dei massimi esponenti della comunità religiosa della Mecca gli ha addirittura offerto un appezzamento accanto alla grande moschea della città sacra.
Nei negozi va a ruba una lampada per il Ramadan con le sembianze del Messi del Nord Africa, che indossa la gloriosa maglia numero 10 dei Reds.
Mentre i tifosi inglesi sugli spalti dell’Anfield cantano una canzone che dice “Segna ancora un altro paio di gol e divento musulmano anch’io”.
Nei giorni scorsi il New York Times ha dedicato la prima pagina alla salah-mania, con ampi servizi che analizzavano le dimensioni imponenti di un fenomeno che ormai va molto oltre il calcio. Visto che il capocannoniere della Premier League è diventato un mito per l’intero mondo islamico. Ma un mito che accomuna anziché dividere, come invece avviene spesso e volentieri con i simboli identitari. Così il football mostra ancora una volta di essere molto più di un semplice gioco.
O di un business. Perché è l’ultimo rituale in grado di creare integrazione, generando nuove forme di appartenenza in grado di bypassare i confini nazionali, religiosi ed etnici. Forse in questo clima di islamofobia montante i gol di Mohamedfanno quel che non riesce alla politica. Unire cuori diversi sotto un’unica bandiera.
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