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Perché dilaga la sindrome dell’invasione – il Venerdì di Repubblica

29 Giugno 2018

Com’è possibile che non ci sia un’onda di indignazione collettiva di fronte allo spettacolo dei bambini messicani separati dai genitori e chiusi in gabbia? Lo ha chiesto pochi giorni fa la signora Marina da Napoli, a Jacopo Jacoboni, il giornalista della Stampa che conduceva Prima Pagina, la rassegna stampa di Radio3.
La risposta più recente a questa domanda, che le cronache ribattono con cadenza martellante, si trova in uno studio Gallup, l’istituto di statistica specializzato in analisi delle tendenze, urgenze ed emergenze che affiorano alla superficie della contemporaneità. I risultati e soprattutto le cifre non lasciano spazio a dubbi di nessun tipo, se non di ordine morale. Secondo il report, firmato da R. J.
Reinhart, nel giro di un solo mese la paura degli immigrati si è letteralmente impennata schizzando al primo posto nella hit delle preoccupazioni degli americani. I più spaventati sono, come c’era da attendersi, i repubblicani, ma questa volta i democratici non lo sono meno. Perché questa sindrome da invasione, che costituisce la nota dominante del paesaggio politico e sociale di oggi, è il sintomo di un’insicurezza collettiva e trasversale. È come se la paura degli stranieri diventasse il gancio cui appendere l’intero fascio delle nostre inquietudini. Dandoci così l’illusione di aver trovato il bandolo di una matassa sfuggente, la sintesi di tutti i nostri timori. Il risultato è la deriva securitaria cui stiamo assistendo. Che trasforma misure discutibili sul piano umanitario, come i lager per bambini, i porti chiusi o, per dirla con Michele Serra la “liberalizzazione dello sparo al ladro”, in un vantaggio politico per quelli che speculano sulle nostre paure.

Marino Niola
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