
Natale in famiglia – RFood
Senza tavola imbandita Natale sarebbe un giorno come un altro. E questo non significa che le ragioni della gola prevalgano su quelle dello spirito. Né che il profano faccia dimenticare il sacro. Al contrario. È proprio il cibo a santificare la festa. Mangiare insieme come vuole la tradizione, infatti, è un momento canonico della celebrazione. Cappelletti, carni farcite, cipolline glassate, dolci alla frutta candita, profumi di spezie, cannella e zenzero. Una liturgia sensoriale che anno dopo anno si stratifica in lessico famigliare, in memoria affettiva, in gastronomia devota. Tutte le fasi del pranzo natalizio hanno il carattere del rito. Dal momento della preparazione, che ha la solennità coinvolgente di un gospel, a quello della tavola, quando la poesia della condivisione rallenta almeno per qualche ora il ritmo convulso della vita. E ci offre l’illusione rassicurante di un eterno ritorno, di una tregua del tempo, che quel giorno non corre ma ricorre. In realtà il banchetto di Natale non può che essere sovrabbondante. Era già così molto prima della società dei consumi, quando i nostri bisnonni risparmiavano da gennaio a novembre per mettere da parte il gruzzolo necessario a consentirsi almeno per una volta quell’opulenza che è la vera materia prima del dì di festa.
Di fatto la nostra gastronomia natalizia, con tutti i suoi eccessi luculliani, è quel che resta delle antiche orge rituali che nel mondo pagano facevano del cibo il collante di ogni cerimonia religiosa. Lo dice la parola stessa, orgia, dal greco ergo, che significa mangiare a sazietà per onorare gli dèi. Scelta dei piatti, ricette, cotture, successione delle portate obbedivano a un copione obbligatorio. Verrebbe da dire sacrosanto. E i commensali erano tenuti a mangiare tutto, anche a costo di scoppiare. Non farlo sarebbe stato un sacrilegio. Perché la condivisione di quei cibi di precetto rafforzava il legame comunitario. Esattamente come le nostre abbuffate che rappresentano il controcanto proteico della Natività. Non a caso il vero epicentro della tradizione resta il desco familiare. E la stessa riproposizione annuale del menu, per molti criticabile, ma a tutti gli effetti inderogabile, diventa mitologia domestica, aneddotica epica, iperbole narrativa che trasforma la semplice strippata in sacralizzazione dell’eccesso. Un modo per fare comunità attraverso il cibo. Ed è anche il senso delle tante iniziative umanitarie che oggi cercano di allargare il cerchio dell’abbondanza festiva ai meno garantiti. E in un tempo come il nostro, in cui il tessuto sociale si sfilaccia e la solidarietà diventa una merce rara, il calore dei fornelli natalizi riaccende il fuoco della convivialità. E resetta la nostra umanità.
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