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“Rivogliamo la Luna”: sogno, conquista e perdita del nostro satellite – la Repubblica Robinson

14 Luglio 2019

Parlare alla luna è folle, non ascoltarla è stupido, diceva Shakespeare.
Ma volerla è umano, fin troppo umano. Al punto che volere la luna è diventata l’immagine stessa del desiderio senza limiti, dell’ambizione sconfinata, della volontà di sapere che, dall’alba dei tempi, muovono e commuovono le menti dei sublunari e, dal 20 luglio di cinquant’anni fa, anche i loro corpi, proiettati dalla terra alla luna. In realtà l’allunaggio di Neil Armstrong e di Buzz Aldrin, gli eroi della missione spaziale Apollo 11, è stato un’impresa da Argonauti siderali, una di quelle congiunture epocali in cui storia e mito diventano una sola cosa. Quel giorno l’uomo oltrepassava le colonne d’Ercole del cielo e realizzava il sogno millenario di mettere la prua nell’infinito per approdare su un mondo nuovo. Il viaggio temerario degli astronauti, che ricorda il “folle volo” dell’Ulisse dantesco, dava di fatto una dimensione inedita alle ambizioni umane, suggeriva nuove scale per misurarne “virtute e canoscenza”. È un piccolo passo per un uomo, disse Armstrong all’inizio della sua passeggiata nel Mare della Tranquillità, ma un balzo gigantesco per l’umanità.

Da quel momento un’espressione come volere la luna ha smesso di significare la distanza incalcolabile che separa la finitudine degli uomini dall’infinitudine delle loro fantasie. D’altronde è proprio questa incommensurabilità piena di mistero all’origine della straordinaria eco simbolica che l’astro notturno ha sempre avuto nel nostro immaginario. E che ne ha fatto la misura primordiale dello spazio e del tempo, delle stagioni e delle religioni. Non a caso tutte le nostre parole che significano il calcolo, gli intervalli, le scansioni, le dimensioni, sono legati alle fasi lunari. Termini come misura, mese, mente, mestruo, commensurabile e forse anche matematica, si formano tutti su un’antica radice linguistica, men, che significa sia il calcolo sia la luna.

Di qui parole come il greco mene, il francese mois, l’inglese moon e month, il tedesco mond e monat, per indicare il corpo celeste e i mesi, che altro non sono se non l’alternanza delle lunazioni. Ma anche il respiro della terra dipende dai movimenti lunari. Dalle maree che innalzano e abbassano la superficie terrestre come il petto di un titano, alla fermentazione del vino che comincia a ribollire impetuosamente nei tini con la luna crescente e viene messo a riposare in bottiglia con la luna calante. Dal temperamento dei lunatici e degli stralunati che si credevano segnati in corpo e in spirito dalle fasi dell’astro, alla fertilità della terra. Fino alla fecondità ciclica delle donne.
Non a caso la parola mestruo significa alla lettera ciò
che torna ogni luna. E per questo una volta si diceva, con espressione insopportabilmente sessista, che le donne hanno la luna. Almeno fino all’inizio della menopausa, letteralmente la scomparsa della luna.

Nella società tradizionale, che dipendeva dall’alternanza della semina e del raccolto, la vita era regolata proprio dai ritmi del lume notturno, che scandivano il tempo del lavoro agricolo e quello della cura degli animali. Ma anche della lievitazione del pane, che si gonfiava come una vela se la gobba lunare era a ponente, mentre scresceva con la gobba a levante.
Questa sapienza d’antan era codificata nei lunari e negli almanacchi, che rappresentavano la vera sliding door tra la scienza ufficiale, fatta di numeri, formule, leggi e i saperi popolari, fondati sull’osservazione minuta, sull’esperienza quotidiana, sulla previsione prudente, sull’enunciazione proverbiale.

Come dire che il satellite della terra è stato l’unità di calcolo primordiale, perché ha suggerito, anche a chi non sapeva leggere e fare di conto, l’idea della divisione del tempo. E, per analogia, anche la possibilità di cogliere i ritmi arcani della vita. Ma anche della morte. Esculapio, mitico fondatore della medicina, attribuiva la durata dell’esistenza agli influssi lunari.
Le maghe e i negromanti compivano i loro sortilegi nelle notti di luna piena. Col favore di quella tenebra sfavillante fatta apposta per risvegliare i lupi mannari e far ballare agli zombies il passo della luna, il
moonwalk di Michael Jackson. Ma anche per far mercato col diavolo ai crocevia, come a una fiera del profondo, una sagra del nostro lato oscuro. Lo facevano puntualmente i bluesman del Mississipi, che poi altro non erano se non contadini con la chitarra. Il più celebre di tutti, Robert Johnson, l’autore di Sweet Home Chicago, alla luce di un soprannaturale plenilunio vendette l’anima a Satana per diventare il re del blues. Il contratto fu onorato. Da allora nel gergo del grande Delta, quando un musicista è in stato di grazia si dice che è andato al crocevia. E in ogni caso, senza luna di affari con l’occulto non se ne fanno. Lo sapevano bene le dianare, cioè le seguaci di Diana, come venivano chiamate una volta le streghe, che si riunivano per celebrare il sabba solo quando la casta diva era al massimo dello splendore.

Ma anche adesso, nonostante non sia più vergine e irraggiungibile, l’astro notturno continua ad accendere fantasie e suggerire calcoli. Al punto che nel 2002 quattro giovani stagisti della Nasa riuscirono a sgraffignare dei frammenti di rocce lunari dalla cassaforte dell’Ente spaziale americano e tentarono di venderli in internet. A ottomila dollari al grammo.
Per merce siderale prezzo stellare. Se volere la luna non è più proibito, resta comunque proibitivo.

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Marino Niola
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