
Tutti al mare alla ricerca del ritmo perduto – il Venerdì di Repubblica
Fra caldo africano e lavoro stressante siamo arrivati alle vacanze di agosto sull’orlo di una crisi di nervi. Forse per questo la maggior parte di noi sceglie il mare. Quest’anno il 55 per cento degli italiani si riverserà su baie e arenili, cale e riviere. Perché accanto alle ragioni contingenti per cui ciascuno decide dove passare le ferie – gusto, abitudine necessità, tradizione – c’è una ragione che ha una profondità quasi inconscia. Ed è il fatto che la grande distesa d’acqua ci fa uscire dalla confusione, rimette a posto le lancette del nostro orologio psicosomatico.
Il grande poeta austriaco Rainer Maria Rilke diceva che il suono largo del mare scaccia le nostre ansie. E il suo respiro maestoso ci restituisce il ritmo perduto nella rincorsa quotidiana con la vita. Come al solito la poesia va dritta al cuore della verità. Perché fra il mare e il ritmo c’è un legame a doppio filo. Perfino etimologico. La parola ritmo, infatti, deriva dal verbo greco rein, che significa scorrere, da cui la celebre espressione panta rei, cioè tutto scorre, in cui il filosofo Eraclito definiva la realtà come qualcosa che cambia continuamente sotto i nostri occhi. In effetti il verbo si riferisce in origine proprio all’onda che va e che viene, alla risacca, alla marea. A ciò che è liquido e mutevole. È la forma di quel che non ha forma, che si agita in maniera tempestosa, dentro e fuori di noi, e che ritrova una sua cadenza, quando ci troviamo di fronte al mare. Che è la forma dell’acqua.
È come se la parte equorea del mondo diventasse lo specchio dei nostri stati di agitazione o di calma, di bonaccia o di effervescenza, delle nostre profondità come della nostra superficialità. Dall’abisso primordiale in cui ai poeti è dolce naufragare alla rotonda sul mare in cui ci accontentiamo di cazzeggiare.
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