
Sì, sono una proteinomane e me ne vanto – il Venerdì di Repubblica
Guarda cosa mangio e capirai chi sono. È il senso di questa foto della bravissima reporter italiana Francesca Magnani, scattata nei giorni scorsi al Blue Bottle di Brooklyn, il caffè più in di New York. Quella scritta Protein, impressa a caratteri cubitali sulla shopper bag, mette bianco su nero una dichiarazione d’identità e insieme l’affermazione di una differenza. Come dire: appartengo alla tribù dei proteinomani e me ne vanto. A dispetto della sostenibilità e della pietà, dell’impatto ambientale degli allevamenti, delle emissioni di CO2 e delle raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.
È la presa di posizione di una parte privilegiata di mondo che fa della proteina un manifesto della sua visione muscolare della vita. Nonché l’antidoto contro i temutissimi carboidrati, simbolo della dieta mediterranea e in generale di un mangiare considerato da poveri. Che rende meno schizzati, meno aggressivi, più paciosi. È come se attraverso le scelte alimentari riaffiorasse quell’antica faglia che, sin da prima del cristianesimo, separa i popoli mediterranei da quelli anglo-germanici. Il primo a dirlo è Giulio Cesare che nel De bello gallico parla con una certa diffidenza dei popoli del freddo, che mangiano pochissimo frumento e si nutrono di carne e latte. Una distinzione che resiste anche all’avvento del cristianesimo, continuando a segnare il discrimine tra i cattolici del Sud d’Europa e i protestanti del Nord, soprattutto tedeschi, britannici e scandinavi. Che, a cominciare da hamburger e hot dog, hanno influenzato i modelli alimentari americani, molto più di quanto non abbiano fatto i piatti mediterranei. Insomma, il cibo dice nella sua lingua quello che una volta dicevano la cultura, la politica, la religione. È per questo che oggi la dieta ha smesso di essere una semplice misura di benessere per diventare un modo di essere. Anzi un modo per essere.
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