
Perché giocare è sempre stata una cosa seria – la Repubblica
Il genere umano non può sopportare troppa realtà, scriveva il grande poeta inglese Thomas S. Eliot. Così ha inventato il gioco, per mascherare il reale e farlo apparire più familiare, più accettabile, più modificabile. O addirittura per crearlo, visto che alcune grandi istituzioni della civiltà, come la scrittura, sono nate dal gioco. E precisamente dal rebus che ha permesso il passaggio dalla pittografia all’alfabeto partendo dall’associazione tra immagine, suono e senso.
Che il gioco abbia una straordinaria potenza creatrice lo aveva detto prima di tutti Eraclito che considerava il tempo, cioè la vita, come un bimbo che gioca con le tessere di una scacchiera. Un’idea che attraversa il pensiero occidentale e arriva fino a Nietzsche, secondo cui il mondo non è altro che un gioco divino al di là del bene e del male.
Ci sono epoche in cui questo primato del ludus si fa particolarmente visibile. Come in quel corto ma decisivo braccio di storia che separa il Medioevo dalla modernità. Proprio a questo snodo temporale è dedicato un bel libro curato da Francesca Aceto e Francesco Lucioli, Il gioco tra Medioevo ed età moderna, appena pubblicato dalla Fondazione Benetton e Viella (pagg. 246, euro 35).
Secondo i curatori, il periodo che sta fra la scoperta dell’America e l’età barocca è caratterizzato da una progressiva diffusione e regolamentazione dell’attività ludica dalla imponente ricaduta etica, estetica, religiosa, politica, pedagogica, sociale, culturale. Nonché letteraria, visto che le diverse forme di narrazione, scritta e orale, si collocano molto spesso entro una cornice giocosa. E col passar del tempo, oltre a rappresentare il gioco, diventano esse stesse gioco linguistico, semantico, ermeneutico. Mentre la conversazione si trasforma a sua volta in paradigma ludico, fortemente codificato, una vera scherma verbale, con le sue mosse e contromosse, finte e affondi. E i cosiddetti giochi di società assurgono a modelli morali e politici, erotici e religiosi. Se, per esempio l’amore fra Tristano e Isotta è descritto mediante l’immagine di una partita a scacchi, il dogma trinitario può essere la posta di una sfida a carte, dove queste ultime sono le pagine del Vangelo. Come quella che in un testo seicentesco del domenicano Francesco Zaccone, vede impegnati Cristo e Santa Rosa. A Cristo che si proclama uno e trino, la santa rilancia chiedendogli come sia possibile «che trino sia quell’uno». E il Verbo umanato, calando la carta vincente chiude con un ultimativo «Dì passa! E scarta al giuoco». Game set and match per il figlio di Dio.
Ma giocare serve anche a disegnare i modelli di genere, a costruire l’identità maschile e, per contrasto ludico, quella femminile. O a stilizzare i ruoli e gli status sociali. In quanto, scrivono i curatori, «coinvolge tutte le categorie: giovani e vecchi, uomini e donne, dotti e illetterati, secolari e religiosi, principi e ladri, gentiluomini e ciarlatani, dame e prostitute».
Si gioca e si parla di giochi nelle corti e nelle case, nelle chiese e nelle piazze, nei tribunali e nei mercati, nelle alcove e negli angiporti. E un gioco come quello della palla viene trasformato, nel 1555, dalla penna di Antonio Scaino da Salò, nell’emblema del travaglioso mondo e dei suoi limiti. Nel senso che i giocatori, ovvero gli uomini, non devono lanciare la palla né troppo alta né troppo bassa, né così violentemente da oltrepassare il limite e finire in fuorigioco. Più chiaro di così!
Se l’uomo è un giocattolo inventato dagli dei, come diceva Platone, allora gli individui hanno il compito di giocare al meglio la loro vita. Facendone un training ludico permanente che comincia dall’infanzia. Ed è quel che succede agli albori della modernità quando la “giocosità virtuosa” rappresenta il vero dispositivo di modellizzazione delle sensibilità e dei comportamenti, dei corpi e delle anime. Il buon cristiano, il principe accorto, il cortigiano, il gentiluomo, la donna virtuosa, il guerriero, il mercante, il letterato, l’uomo di chiesa sono l’effetto di altrettante pedagogie, che insegnano ad essere sé stessi giocando. Ogni tipo ha le sue regole, le sue strategie, i suoi segreti, le sue mosse vincenti. Un processo formativo che sta fra creazione e ricreazione, iniziazione e integrazione. Perfino le preghiere illustrate prendono la forma grafica di un labirinto in cui l’anima rischia di smarrirsi per poi ritrovare sé stessa, se ha saputo ben giocare, al termine di un itinerario che sta tra il ludico e l’iniziatico. Non è un caso che tra Cinquecento e Seicento le orazioni labirintiche diventino un vero e proprio genere editoriale con tirature da bestseller.
Insomma, il gioco perde lo stigma negativo, che lo aveva accompagnato nel Medioevo fissandolo nel simbolo del diavolo ioculator, malvagio e simulatore, giocoliere e calcolatore, un joker prima di Joker. E diventa l’indispensabile viatico dell’uomo di mondo che della finzione, condivisa e regolata, fa la sua dimensione esistenziale e della maschera la sua seconda pelle, destinata ben presto a prendere il posto della prima sulla scena sociale. Perché nella commedia dove ognuno inganna gli altri e gabba sé stesso, per dirla con Michel Foucault, sul palcoscenico della vita dove ciascuno gioca il suo ruolo e ne è giocato, la maschera rappresenta l’inganno nell’inganno. Ed è proprio questa illusione alla seconda potenza a trasformare la sua finzione in verità. Ma illusione viene da in-ludere, cioè volgere qualcuno o qualcosa in gioco. È l’ennesima conferma che homo sapiens e homo ludens sono la stessa persona.
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