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Olio bollente e spiedo è l’effervescenza del gusto – La Domenica di Repubblica

6 Giugno 2010

Niente fumo. Tutto arrosto. È la formula vincente della rosticceria. Che dà sempre quel che promette. Sostanza e nutrimento ma anche sfizio a go go. Un mangiare povero trasfigurato dalla sapienza antica di mani abituate a fare di necessità virtù. E capaci di trasformare la sopravvivenza in piacere.

Una fantasmagorica lista di gourmandises, più lunga del Catalogo di Leporello, per cantare le lodi della nostra gastronomia popolare che ha sempre fatto le nozze coi fichi secchi creando dal nulla, o quasi, dei sapori divini per mandare la classe operaia in paradiso. Le esaltanti arancine di riso siciliane, la sobria farinata di ceci di Genova, le golosissime olive all’ascolana, i raffinatissimi rustici di sfoglia leccesi, la lussuriosa porchetta laziale, il voluttuoso prosciutto in crosta triestino. E il panino del magut, tradizionale razione kappa dei muratori milanesi, mortadella e gorgonzola per mettere il turbo alle calorie. Per non parlare dei romanissimi filetti di baccalà e dei filanti supplì “al telefono”, bocconi dalla schiettezza neorealista che hanno sfamato intere generazioni di lavoratori. Invece oggi allietano la pausa pranzo del terziario avanzato. E diventano il piatto forte dei buffet low cost, delle festine di compleanno, delle cene improvvisate con gli amici, dei bivacchi televisivi dove la palla di riso deflagra sulla giacca mentre quella di cuoio si insacca trionfalmente nella rete.

Cuochi si diventa, rosticcieri si nasce diceva il grande Brillat-Savarin. Come dire che la rosticceria è uno stato di effervescenza della cucina, un confronto titanico tra il fuoco e la materia. La fiamma viva, l’olio bollente, il forno arroventato, lo spiedo sfrigolante. È il trionfo dell’aura, di quella crostina dorata che avvolge la sua preda e la costringe a rivelarsi, strappandole il segreto del suo sapore. Trasformando la più elementare pastella di acqua e farina in un morceau de roi.

È quel che ci insegnano le grandi capitali della rosticceria, le città mediterranee con i loro angiporti fumosi, dove gli afrori imperiosi del fritto risalgono inarrestabili vicoli e carruggi. Come il richiamo sensuale della tentazione misto al profumo struggente della nostalgia. Di quando uscendo da scuola placavamo i morsi della fame adolescenziale divorando interi cartocci di fritti. Quei coni di carta gialla che a Napoli si chiamano coppetti e che assomigliano tanto a delle cornucopie. Piene di paste cresciute, di crocchè di patate, di scagliozzi di polenta fritta, di fette di melanzane in pastella. Perfetta mente identici a quelli che si vendono nelle rosticcerie di Siviglia, sorella andalusa di Partenope. Piccoli pezzi a piccoli prezzi. La forza della rosticceria è la serialità della produzione e la parcellizzazione sempre più minuta. Simbolo di un mangiare democratico, moderno e metropolitano. In fondo la rosticceria, madre del fast food, del finger food e della monoporzione messi assieme ha inventato una vera e propria unità di alimentazione popolare, che sarebbe piaciuta tanto a Le Corbusier. Colesterolo permettendo. [Download PDF]

Marino Niola
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