
Cruda e crudele è la carne il nostro primo peccato – Mangiare i simboli/5
Su Repubblica di oggi la quinta puntata della mia serie Mangiare i Simboli.
Fino a quando ci saranno macelli, ci sai anno campi di battaglia. Lo diceva Tolstoj che considerava l’associazione tra carne e guerra un inesorabile automatismo della storia. In realtà che bistecche, filetti e cosciotti siano sinonimo di forza virile e del furore bellico è cosa nota dalla notte dei tempi. Ne sono la prova gli appetiti pantagruelici degli eroi omerici, che misurano il loro valore in quarti di bue, spalle di maiale e pecore intere. Secondo una gerarchia che assegna le parti migliori ai combattenti migliori, quelli che hanno collezionato più morti e feriti. Come fa Agamennone, il capo supremo dell’esercito greco quando premia Aiace, che ha ridotto a mal partito Ettore, assegnandogli un intero filetto di bue. E non è meno generoso Achille che ospita Ulisse nella sua tenda e chiede a Patroclo, il compagno diletto, di servire al re di Itaca una spalla di pecora, una capra ben pasciuta e un’intera schiena di porco, «fiorente di grasso». In quella società di guerrieri la carne ha un valore simbolico tale che l’obelos, lo spiedo, da semplice attrezzo di cottura alla fiamma diventa un parametro di valutazione sociale. Ci sono personaggi che valgono tre spiedi, chi due, chi uno. E chi nessuno. Come dire uomini, sottuomini, ominicchi e quaquaraquà. E per una ragione analoga il kolakretes, lo scalco, che in origine trincia e distribuisce fette, costate, e interiora nei banchetti pubblici, diventa il tesoriere della polis, custode e dispensatore di tutte le sue ricchezze. Come dire che la carne si disincarna e diventa un’astrazione, un’unità di valore, una moneta al sangue. Ma anche tra le popolazioni celtiche e germaniche, l’uomo di rispetto è quello che spopola nella caccia. O nella guerra. O in entrambe. Nel Walhalla, il paradiso nordico, gli eroi passati a miglior vita non fanno altro che menare le mani e correre dietro al mitico cinghiale Saehrimnir, che ogni giorno finisce immancabilmente accoppato e arrostito. Per poi rinascere nottetempo e ricominciare la solita solfa fino al giorno del Ragnarök, lo scontro finale tra le potenze della luce e quelle delle tenebre. Roba da signore degli agnelli. Il mito riflette, insomma, un’idea del combattimento come valore in sé. Come fine e non come mezzo. Un po’ quel che succede nei favolosi sabba delle streghe, quando le lascive maliarde mangiabambini divorano carne a quattro palmenti. Ma come per incanto, salsicce e costate continuano a riprodursi. Per gli inquisitori è la prova inequivocabile di una peccaminosa volontà di potenza delle donne che si sfondano come lanzichenecchi. E che vi sia una relazione strettissima tra carne, crudità e crudeltà lo dice la parola stessa. Che alcuni fanno derivare da una radice kru, che indica proprio la morte, la violenza, la durezza. Mentre altri ritengono che all’origine dell’espressione ci sia l’indoeuropeo ker, tagliare. Di qui le nostre tagliate che la rucola tenta invano di redimere. Crudeltà o lascivia la carne è sempre un peccato. Ne sono convinti i padri della Chiesa che vedono nella passione per arrosti e spezzatini un pericoloso cedimento alle tentazioni della carne. È una tendenza che attraversa l’intera storia del cristianesimo e tocca le sue massime punte di diffusione tra i gruppi a tendenza ascetica e penitenziale. Non a caso i monaci medievali, per distinguersi dai barbari mangiatori compulsivi di carne, discesi dal nord rilanciano alla grande il vegetarianesimo. Per ragioni morali più che nutrizionali, ideologiche più che fisiologiche. In molti conventi ci sono addirittura due cucine, una grande per le verdure e l’altra piccola per le proteine animali. Per non confondere il puro e l’impuro. Aveva proprio ragione Emile Cioran a dire che dentro ogni desiderio lottano un monaco e un macellaio. E in fondo c’è qualcosa di queste antiche concezioni anche nei cosiddetti vegan-sexual, che in nome del “cruelty-free sex” (sesso non violento), rifiutano partner carnivori. «Non posso pensare di baciare delle labbra che hanno toccato animali fatti a pezzi», dice una donna di Auckland intervistata nel corso di una ricerca dell’Università di Canterbury e del New Zealand Centre for Human-Animal Studies, che ha analizzato un campione di vegani e vegetariani, per lo più donne, sul tema della vita non violenta. Molte intervistate sostengono che i corpi non vegani hanno un odore diverso perché sono fatti di carcasse di creature assassinate. O addirittura che il corpo dei mangiatori di carne è un cimitero per animali. Numerose teoriche del femminismo, come Carol Adams, editorialista del Washington Post e autrice di The Pornography of Meat (La pornografia della carne), affermano che le donne sono prede e vittime di un immaginario machista che si alimenta di “belle bisteccone”, di “bocconcini appetitosi ” e di “pollastre sexy”. Facendo dell’uso e abuso del corpo animale lo specchio dell’uso e abuso del corpo femminile. Perché, come si sa da sempre, l’uomo è cacciatore. Proprio per questo nel Medioevo i disertori e i codardi venivano umiliati con l’esclusione dal consumo della carne. Perché si erano comportati da femminucce e pertanto non erano più degni di mangiare cibo da veri uomini. Insomma da Beefeaters. Letteralmente mangiatori di manzo . Così vengono chiamati ancora oggi i guardiani della torre di Londra. Soldati fidati che dal Seicento sono i custodi della stabilità dell’Impero Britannico . Un ruolo che ha il suo contrassegno simbolico nel diritto a ricevere un’imponente razione di carne giornaliera. E quando nel 2007 una donna ha indossato per la prima volta l’esclusivissima divisa rossa e blu , la novità ha provocato una ribellione sotterranea tra i suoi commilitoni. Perché evidentemente l’idea di una “mangiatrice di manzo” in gonnella fa crollare l’impalcatura ideologica su cui si regge l’ordine maschilista di questi brothers in arms. E l’idea che la potenza della Corona si fondi sul fantasma di una virilità nutrita di proteine animali doveva essere talmente pervasiva che il vegetarianissimo Gandhi durante la lotta anticoloniale, si era convinto che solo adottando una dieta carnea gli Indiani avrebbero sviluppato gli attributi necessari per mettere alla porta gli Inglesi. Evidentemente il richiamo della carne è così archetipico che perfino l’incorruttibile Mahatma è stato indotto in tentazione.
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