
Dagli oracoli a Google Earth. Il nostro sano ecocentrismo – La parola presente/2
Oggi su Repubblica è uscita la seconda puntata della mia serie La parola presente, dedicata alle parole che esprimono il carattere della mutazione antropologica in corso. La parola di oggi è ambiente.
Buona lettura!
Il buco dell’ozono si sta chiudendo, lo dice uno studio del MIT di Boston pubblicato nei giorni scorsi su “Science”. Pare proprio che il pianeta possa tirare un sospiro di sollievo. Forse è la fine di un incubo perché in questi anni l’ozone hole ha rappresentato il primo squillo di tromba dell’apocalisse ecologica. E, insieme, l’inizio di un esame di coscienza globale. Un atto di resipiscenza ambientalista, un mea culpa corale che ha modificato i comportamenti quotidiani di milioni di persone di buona volontà. Che hanno fatto della rinuncia agli spray e della lotta alle emissioni un articolo di fede, ma anche una piattaforma politica. E soprattutto l’ammissione delle responsabilità dell’uomo nei confronti del vivente. Fino al 1985, anno in cui è stato lanciato l’allarme buco, la causa verde aveva pochi proseliti e si occupava per lo più di temi locali, legati a emergenze particolari o ad angoli di mondo circoscritti. La difesa delle foche in Groenlandia, la fatwa contro le pellicce, le battaglie per le oasi naturalistiche, i referendum contro la caccia, la lotta ai pesticidi. Battaglie nobili che hanno mobilitato gruppi sempre più estesi di cittadini sotto le bandiere del Wwf e di Greenpeace. Unica eccezione, la deforestazione dell’Amazzonia che, trasportata dall’onda indigenista e dall’afflato terzomondista degli anni Settanta, aveva posto per la prima volta all’opinione pubblica un problema sistemico, di interdipendenza planetaria.
Fu allora che diventò senso comune la consapevolezza che sufficiente il battito d’ali di una farfalla in Brasile per provocare un terremoto dall’altra parte del mondo. Un concetto molto complesso — elaborato tra gli altri da scienziati come Alan Turing e Edward Lorenz — che però grazie alla forza di questo paradosso, eloquente come una parabola evangelica, è diventato un topos dell’immaginario contemporaneo. Dal cinema alla letteratura, dai fumetti alla televisione fino ai videogiochi. E adesso alla rete, diventata ormai il grande processore delle sensibilità globali. Fabbrica di mitologie e fucina di ideologie. Non a caso ambientalismo e mondialismo sono entrambi strettamente intrecciati alla galassia digitale. Perché hanno in comune la vocazione olistica, la tendenza sovranazionale, la portata extraterritoriale. In realtà la viralizzazione della filosofia green è una sorta di anticorpo positivo prodotto dalla globalizzazione, un virus buono che ha riportato al centro della questione il pianeta nel suo insieme e ha dato il via ad una controrivoluzione copernicana: dall’antropocentrismo dell’era industriale che fa dell’uomo il padrone assoluto dell’universo, ad un geocentrismo illuminato che sposta l’asse dei diritti. Dagli umani alla natura. Facendo fare all’umanesimo due passi avanti e un passo indietro.
Perché riporta sugli altari Gaia, l’antica terra madre, eletta nuova divinità dello sviluppo sostenibile. Di qui un fiorire di teorie, dalla cosiddetta “Ipotesi Gaia” del chimico inglese James Lovelock, alla Deep Ecology del filosofo norvegese Aarne Naess, fino al concetto di Antropocene divulgato da Nobel Paul Crutzen.
Una mitologia laica supportata da Google Earth che nel 2005 ha dato concretezza all’astrazione lanciando la sua applicazione gratuita che consente un tu per tu con la terra. È l’iconizzazione tecnologica della dea dai mille volti. Quelli che gli antichi andavano a cercare in certi siti particolarmente potenti, dove una energia tellurica e grandiosamente epifanica, l’antica natura onnipossente di Leopardi, comunicava i suoi arcani in forma di segni, responsi, avvertimenti. Gli antichi la chiamavano geomantica. Noi georeferenziazione. E al posto degli oracoli della Pizia interroghiamo i Gis. Acronimo di Geographic Information System, un software che ci fa esplorare in tempo reale tutti i contorni dell’orbe. Gratificando le nostre ambizioni ambientali. Non è un gioco di parole, ma un algoritmo etimologico, perché la parola ambiente, letteralmente qualcosa che ci sta intorno, deriva proprio dal verbo latino ambire, che significa andare in giro. Per cui gli ambiziosi erano quelli che andavano brigando di qua e di là per ottenere il loro scopo. Non a caso ancora oggi nelle lingue europee le parole per dire l’ambiente hanno sempre a che fare con l’andare in circolo. Dall’inglese environment, calco del francese environnement, allo spagnolo entorno, fino al tedesco Umwelt, che ha il senso di circostante.
L’ambiente, per coloro che ci hanno tramandato i termini che ancora adoperiamo, era un riferimento spaziale preciso a qualcosa che circonda il nostro habitat, che lo contiene. Esattamente come l’Oceano, che nel mito greco circonda e contorna la terra, perché si riteneva che la aggirasse come un fiume. Insomma, una delimitazione geografica. Mentre per noi l’ambiente è diventato una delimitazione etica senza alcun riferimento territoriale. Il cardine di una geografia civile. È quel che circonda l’umano, il limite alle nostre ambizioni smisurate, al nostro sviluppo insostenibile. Che sta ipotecando il futuro della terra. Una casa comune che non ereditiamo dai nostri antenati ma che prendiamo in prestito dai nostri figli. Parola di un capo Navajo. Come dire che oggi l’ambiente è un’allegoria della natura, o meglio dei peccati che abbiamo commesso contro di lei. E, al tempo stesso, un imperativo ecologico. Una moratoria in nome dei diritti del vivente che si sta configurando come un nuovo mito politico, l’ultima variante dell’ideologia. Che adesso non ha più lo sfondo sociale delle classi in lotta per le risorse, ma, per dirla con Eliot, quello della terra desolata, saccheggiata, mercificata, avvelenata.
L’ecologia sta diventando così la nuova forma di un’antica contrapposizione. Nel senso che sullo sfondo della natura, dell’ecosistema, della difesa delle biodiversità oggi si vanno ridisegnando i profili di due concezioni dell’uomo che si fronteggiano da almeno due secoli. Da quando l’integrato Voltaire sbeffeggiava l’apocalittico Rousseau per la sua utopia di una natura originariamente buona e guastata dal progresso. Ma adesso l’autore delle Confessioni si prende una bella rivincita. Perché è sua la bandiera verde che sventola sulle nuove frontiere del pensiero globale. Che abbandona l’arroganza antropocentrica della modernità per entrare nell’era dell’ecocentrismo di massa.
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