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Giocando s’impara a crescere – la Repubblica

21 Gennaio 2017

Ne ricorda l’importanza il libro “L’umanità in gioco” pubblicato da UTET. Ne ho parlato su Repubblica di oggi.

L’uomo è un giocattolo inventato dagli dei, diceva Platone. Sembra solo un paradosso, ma a ben vedere fotografa l’essenza della nostra vita. Che è fatta di fortuna e abilità, destino e calcolo, prudenza e azzardo, convenzione e invenzione, competizione e imitazione, cooperazione e autoaffermazione, realtà e finzione.

Insomma, vivere significa imparare a mettersi in gioco. A ricordarcelo è un libro appena pubblicato da UTET nella bella collana Dialoghi sull’Uomo diretta da Giulia Cogoli (L’umanità in gioco, 12 euro, nelle librerie dal 24 gennaio). Centoventinove pagine agili e dense in cui antropologi, filosofi, linguisti, psicologi, pedagogisti e scrittori ragionano sul gioco e ci mostrano che, oggi come ieri, homo sapiens e homo ludens sono la stessa persona.

In fondo si gioca per imparare a vivere, come dice Anna Oliverio Ferraris in uno dei testi che compongono il volume. E i giochi, da che mondo è mondo, servono proprio a questo. A rappresentare la realtà attraverso la finzione. Attraverso un modello in miniatura di cui non ci sfugge il minimo particolare. Così abbiamo l’impressione di poter controllare la realtà proprio come controlliamo i nostri giochi e i nostri giocattoli. È per questa ragione che, adulti o bambini, restiamo dei toy enjoy vita natural durante.

Se è vero che la nostra esistenza è fatta di regole da imparare, rispettare, interpretare, aggirare, allora il gioco, che è il trionfo della regola, rappresenta la grammatica della vita allo stato puro. Tutte le volte che giochiamo, in borsa come a carte, in politica come in amore, in letteratura come nello sport, proprio nel momento in cui riepiloghiamo le regole del gioco, di fatto le stiamo già modificando. Stiamo ricreando il mondo, quello nostro e quello degli altri. Forse perché, come diceva il poeta Thomas S. Eliot, l’umanità non è in grado di sopportare troppa realtà. Perciò ha bisogno di travisarla, di mascherarla, di trasformarla. Di inserire il quotidiano in una cornice ludica. In questo senso giocare ha sempre a che fare con l’arte. Che, a ben vedere, è la massima espressione del gioco. Perché sta a metà tra realtà e illusione. Lo dice la parola stessa illudere, che deriva da in e ludere, ossia trasformare qualcosa in gioco.

Mettere gli elementi della realtà in un ordine diverso, ricomporre le tessere della vita proprio come si fa con i mattoncini del Lego, il cui nome richiama proprio il senso del greco legein, che significa scegliere, raccogliere, mettere insieme, da cui deriverebbe anche la parola legge. Ed è quel che fanno bambini e adulti quando inventano il mondo assoggettandolo alle regole del gioco. E così imparano a stare al gioco della regola. Rimpiccioliscono la realtà per ridurla alla loro portata. La moltiplicano in frammenti, come fanno con le parole e con i giocattoli. E al tempo stesso fanno di quei frammenti le loro briciole di Pollicino, il loro passaggio incantato, la loro porta d’ingresso nella vita.

E che giocare non serva solo a svagarsi ma a costruire umanità e comunità, carattere e personalità, lo conferma uno studio americano citato da Anna Oliverio Ferraris, secondo cui negli ultimi trent’anni il declino dei giochi di movimento, quelli in compagnia e all’aria aperta, quelli che non prevedono una play station e basta, sta producendo un aumento di patologie dell’adolescenza. Ansia e depressione in primis. Ma anche senso d’impotenza, narcisismo, egocentrismo, oltre a una serie di dipendenze gravi come quelle da alcol e droghe. E perfino goffaggine e obesità. Forse è anche per prevenire questo default di socialità che il governo finlandese ritarda l’ingresso nella scuola primaria a sette anni, in modo da lasciare ai bambini un anno in più per giocare insieme agli altri. Per poter sviluppare i necessari anticorpi ludici prima di entrare in contatto con un mondo come quello attuale, che tende a chiudere le porte alla fantasia in nome di un principio di realtà sempre più pragmatico. E di un utilitarismo che non fa sconti né agli adulti né ai bambini. Dimenticando che quando si smette di giocare non si diventa grandi. Semplicemente si invecchia.

Marino Niola
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