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Sant’Agata, il fuoco sacro di Catania – la Repubblica

6 Febbraio 2017

La febbre di sant’Agata brucia come il fuoco e scorre nelle vene della città come la lava dell’Etna. Basta un semplice sguardo a questo immenso catalogo di corpi in movimento per capire come la festa che fa battere il cuore ai catanesi, credenti e non credenti, non sia solo religione. O almeno non solo religione di chiesa. Ma liturgia della polis, dichiarazione di appartenenza, celebrazione del legame sociale.
È la città che mette in scena se stessa come una comunità di destini. Umori e amori, passioni e devozioni, splendori e tremori. Insomma il cinque febbraio è il giorno della verità in maschera. Il gran veglione in cui tutta Catania si fa teatro, come diceva Giovanni Verga, il più illustre dei catanesi insieme a Vincenzo Bellini. Entrambi toccati dal fuoco e dalla grazia. Proprio come la picciridda, la santa adolescente, la casta diva che rifiutò di abbandonare la fede in Cristo e per questo patì il più crudele dei tormenti che si possano infliggere a una donna. Le vennero tagliati i seni. Ma il fervore della sua fede la guarì miracolosamente. E, per una sorta di contrappasso, ne fece la signora del fuoco, la grande domatrice degli incendi, delle fiamme e delle eruzioni. Si spiega anche così l’incandescenza della devozione di questa città accucciata sotto il vulcano, che nel 1699 spalancò le sue bocche e vomitò torrenti di distruzione. Del resto ancora oggi, quando la grande montagna sonnecchia, sbuffi di fuoco escono dalle sue narici. Come un memento mori che rende gli etnei gente speciale. Fremente per amore della vita, prudente per il timore della morte. Disincantata per l’antica dimestichezza con l’abisso. Come quegli uomini che si stringono intorno alla statua della patrona con la solennità consapevole e complice di una confraternita di dervisci. Saccu e scazzetta, veste bianca e copricapo nero.
Sono loro che trascinano il fercolo con il simulacro della santa. Una specie di baldacchino barocco, ma potrebbe essere il palanchino di una maharani indiana, o il trono stellato di una dea orientale.
Le immagini di folla in festa sono di un perturbante esotismo, fanno pensare all’Oriente di Ingres e Delacroix. Mentre le ragazze vestite di bianco con le rose rosse in mano come vergini sacrificali, evocano venti carichi di sabbia, echi di Andalusia, reminiscenze di altri mediterranei. Passato e presente si incrociano in questo orizzonte al tempo stesso sacrale e pop.
Per un verso, le immagini della santa vendute dagli ambulanti trasformano il dettato teologico in post-verità popolare, con Agata colpita da un fascio di luce iridescente come John Belushi ne I Blues Brothers. Per l’altro verso, il fercolo trabocca di un’arcaica energia magnetica che i preti fanno piovere sulla folla, soprattutto sui bambini, per imposizione della mano.
Mentre i volti e le posture dei potenti assumono toni di straniata teatralità.
Come le signore in mantella azzurra e gramaglie nere, o i compunti maggiorenti, sui cui lineamenti il sacro disegna imperscrutabili ghirigori, cifre elitarie, enigmi da Todo modo. Insomma, poteri e forze allo stato fusionale e confusionale, per una festa che, sotto lo scintillio del magma umano, lascia affiorare una geometria sociale al tempo stesso mobile e immobile. Proprio come la lava.

Leggi l’articolo su Repubblica.it.

Marino Niola
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