
L’ultima sfida della pizza quell’arte è un patrimonio – la Repubblica
L’arte dei pizzaiuoli napoletani, rigorosamente con la U, è al rush finale per il riconoscimento Unesco. E se il diavolo non ci mette la coda, nelle prossime ore potrebbe essere proclamata patrimonio dell’umanità. È una lotta all’ultimo voto condotta sul filo della diplomazia. Tant’è che l’Italia ha schierato a Seul, dove si sta svolgendo il negoziato finale che si concluderà il 9 dicembre, ben due nostri ambasciatori, quello in Corea e quello all’Unesco. Sono 24 i paesi componenti il Comitato intergovernativo che dovrà decidere sulla candidatura italiana. E di questi solo due europei, Austria e Cipro. La partita è difficile, ma se dovesse arrivare il sospiratissimo sì, sarebbe una bella vittoria non solo per Napoli, ma per l’intero paese. Intanto perché ad essere patrimonializzato dall’organizzazione delle Nazioni Unite non sarebbe un prodotto, sia pur celebre, come la pizza. Ma la cultura, la tradizione, la comunità da cui escono i maestri della margherita. Che hanno costruito con pazienza e sacrificio la fortuna di questo confort food.
In realtà l’arte dei pizzaioli è antichissima. Negli scavi di Pompei e in quelli dell’antica Neapolis, la Napoli del V secolo a. C., sono stati trovati dei forni perfettamente identici a quelli che ancora oggi vengono costruiti dai maestri fornai partenopei con una tecnica tradizionale, ritenuta indispensabile per una cottura a regola d’arte. Un lunga storia di abnegazione, fatica, emigrazione ha fatto di questo pronto soccorso dello stomaco — colazione, pranzo e cena in dose unica per saziare la fame atavica del popolo — il cibo glocal per antonomasia. Che ha letteralmente colonizzato il gusto del nostro tempo. E si è perfettamente integrato nelle diverse culture alimentari, al punto che ciascuno lo ritiene proprio. Insomma un hardware gastronomico, compatibile con i più diversi software. Ciascuno la fa a modo suo. Pratica comunitaria per un’alimentazione solidale. L’arte della pala e del forno è il risultato di un vero e proprio processo sociale cui pizzaiuolo e consumatore partecipano fifty fifty. Nell’Ottocento a Napoli la parola pizzeria neanche esisteva. Si chiamava bottega del pizzaiuolo, perché più che la merce a contare era l’artigiano.
In effetti il disco fumante è solo la materia prima di un rituale alimentare, che ha al suo centro il forno e il banco di lavoro. Che, non a caso, nei locali tradizionali, non stanno nascosti in cucina, ma si trovano al centro del locale, come un altare. E il pizzaiuolo non lavora dando le spalle agli avventori, ma li osserva e intrattiene con loro un rapporto costante, un feed-back comunitario. Che riflette mutamenti di gusto, di sensibilità, di sostenibilità. Non a caso molti pizzaiuoli, napoletani e non solo, attenti alle indicazioni dell’Oms in materia di educazione alimentare, cercano di adeguare la preparazione a standard di salubrità crescenti. Insomma la pizza è una soluzione democratica e sostenibile al problema della fame. Pochi cibi, infatti, sono altrettanto ecocompatibili, in grado di soddisfare insieme le esigenze del gusto e quelle del benessere, a costi contenuti e senza pesare eccessivamente sulle risorse del
pianeta. Un perfetto esempio di gastronomia social.
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