
Quel lessico famigliare dell’identità italiana – la Repubblica
Adesso per la scena italiana il Novecento si è veramente chiuso. Con Luigi De Filippo scompare l’ultima grande dinastia del nostro teatro, erede delle grandi famiglie della Commedia dell’Arte, gli Andreini, i Riccoboni, i Biancolelli, i Fiorillo e, più di recente, i Rame, che con i loro volti e gesti, tic e lapsus, lazzi e piroette hanno disegnato la fisionomia del nostro paese.
E Luigi non faceva eccezione alla regola. Si presentava sul palco con quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così che avevano tutti i De Filippo. Dimessi e potenti, qualche volta perfidamente prepotenti come Eduardo. O chirurgicamente caustici come Peppino. O platealmente genitoriali come Titina. O eternamente figli come Luca. O sommessamente ironici come Luigi. L’insieme di questi caratteri è il riepilogo scenico della trama morale e civile dell’Italia. Che proprio sulle tavole del teatro — tra drammae melodramma, farsa e commedia — tutto tranne che tragedia — trova la sua espressione più compiuta.
Facendo affiorare quella verità nascosta in fondo a noi stessi, che solo la maschera riesce aportare alla luce. E che all’estero coglievano benissimo, al di là di ogni barriera linguistica. In Russia per gli spettacoli di Eduardo le file ai botteghini erano interminabili e l’accoglienza trionfale. Proprio perché il pubblico vi riconosceva la quintessenza familiare e a volte familista del Belpaese. Che sulla scena faceva cortocircuitare pubblico e privato. Sentimento e risentimento. Talento e scontento. «Noi De Filippo abbiamo portato la vita in scena», aveva detto di recente Luigi. Che parlava sempre a nome della famiglia, unita al di là delle divisioni personali, da un’identità problematica e teatrale, proprio come quella italiana. Continuamente messa in discussione ma sempre iconica, proverbiale, paradigmatica. Non a caso i detti e contraddetti di Eduardo e Peppino sono entrati nel lessico famigliare del Belpaese.
A cominciare dagli eduardiani “Gli esami non finiscono mai”, “Te piace o’ presepe?” e “Adda passà a’nuttata” che hanno illustrato profeticamente gli effetti della mutazione antropologica del Paese, ben prima di Pasolini. Fino ai tormentoni di Peppino. Come “ho detto tutto” o la “carta d’indindirindà” che del carattere nazionale mostravano il lato istrionico, farsesco, inconsapevolmente eversivo, cifrato nella prosopopea stralunata di Pappagone. O di Antonio
Mazzuolo, l’integralista cattolico alle vongole delle Tentazioni del Dottor Antonio di Federico Fellini. Insomma i De Filippo hanno rappresentato le metamorfosi della società italiana, vista attraverso quel doppio concentrato d’italianità che è Napoli.
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