
Il Paese del cibo senza stranieri sarebbe alla fame – il Venerdì di Repubblica
Il Made in Italy alimentare non esisterebbe senza gli stranieri. Lo rivela Rep Data in un servizio di Andrea Gualtieri uscito nei giorni scorsi sul sito di Repubblica.
A produrre il Barolo, le mele del Trentino e il latte per il parmigiano. A coltivare le viti del Negramaro pugliese, i pomodori San Marzano e le arance siciliane sono lavoratori venuti da lontano. Le cifre del fenomeno parlano da sole.
Il 36 per cento della mano d’opera che fa grande il nostro agroalimentare arriva dall’estero e «la proporzione sale al 57 per cento proprio nelle regioni a trazione leghista». Con punte estreme come il Veronese, dove gli immigrati sono il 69 per cento della forza lavoro, Cuneo, dove ammontano al 74, e Bolzano, dove la percentuale raggiunge l’81. Senza di loro il Nord si fermerebbe. E dunque è ora di smetterla con la balla degli estranei che vengono a rubarci il lavoro, ha videocommentato Sergio Rizzo.
Insomma a uscire ancora una volta con le ossa rotte è il mito dell’autoctonia.
Sempre falso e ingannevole. Intanto perché ad essere stranieri, prima ancora dei produttori, sono gli stessi prodotti tipici su cui abbiamo costruito la nostra identità alimentare. Sudamericani, come pomodoro, patate, mais, fagioli, peperoni. Asiatici, come arance, pesche, albicocche, melanzane, spezie. Arabi e africani, come caffè e non solo. In realtà la tavola, proprio come la vita, è frutto di migrazioni, di mescolanze, di prestiti, di contaminazioni. E quel che succede ai cibi tocca anche alle persone, che col tempo finiscono per sembre nate nel Paese che le ha accolte. Come dire che gli alimenti si sono integrati prima degli uomini, spesso a loro insaputa.
E che la cucina è forse la prova generale dell’umanità di domani.
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