
Viva Saint Paolino ‘o patrono di Nola e di Brooklyn – la Repubblica
San Paolino protegga i Lifters. E chi vuole sostenerli può pagare anche con PayPal. I Lifters sono i ragazzi di Brooklyn che alzano il Giglio, un obelisco alto venticinque metri e pesante quattro tonnellate. Con in cima la statua benedicente del patrono di Nola. E la sera del 9 luglio alle sette, ora locale, il rito ha il suo climax nella grande alzata solenne. Proprio come si fa da secoli a Nola, la città campana da dove sono arrivati i loro antenati, portandosi dietro le loro tradizioni e le loro devozioni. Ma soprattutto una passione dell’origine, un legame identitario che ha resistito per oltre un secolo alle rivoluzioni, alle convulsioni, alle mutazioni della società globale.
Adesso è il momento dei guaglionidi Williamsburg. Gerard Langone, Neil Dellamonica, Anthony Pennolino, Sal Mazzatenda, Phil Galasso, Domenic Varuzza, John Perrone. Nomi che raccontano una storia migrante. A sentirli sembrano usciti da un film di Martin Scorsese, da una pagina di John Fante o di Mario Puzo. A vederli fanno pensare a una nostalgia anabolizzata, a un’italianità stralunata, a un desiderio di patria, più sognata che vissuta, più riconosciuta che conosciuta. Ma sicuramente tatuata. Scritta sul corpo a caratteri indelebili. Come una preghiera dipinta, un ex voto disegnato sulla pelle invece che sulla solita tavoletta da appendere alle pareti del santuario di Nola.
È una religione oversize per Italian American che hanno lasciato la terra di nascita in cambio di una fortuna pagata con gli interessi. Molti di loro Nola non l’hanno mai nemmeno vista, tanti sono di seconda o di terza generazione. Ma gli è rimasta la fame del paese, una bulimia di appartenenza che scoppia da ogni parte.
Nelle canzoni, che sono rigorosamente napoletane, anche se la pronuncia è broccolina. Nella folla che salta, oscilla, balla dietro all’obelisco danzante. Nel cibo che tracima dai chioschetti, dalle bancarelle, dalle trattorie trasformando la strada in una Bengodi di salsicce, di zeppole, di pizze fritte, di polpi. E di polpette, le proverbiali meatballs che sono diventate il simbolo dell’opulenza, del riscatto dalla miseria, del calcio in culo alla fame dei padri.
Quando arriva Gerard Langone, il capo numero uno dei devoti di san Paolino e si appresta a dare l’ordine di alzata, i volti si fanno tesi, i muscoli tirati come molle pronte a scattare. Improvvisamente il grido fende l’aria come un colpo di frusta. E la macchina da festa s’innalza verso il cielo, spinta da cento portatori che se la mettono sulle spalle e cominciano a farla dondolare come una statua della dea Kalì in una processione sulle rive del Gange. Per diventare number one come Gerard ci vogliono anni di apprendistato. Lui ha cominciato a otto anni e adesso ne ha cinquantotto ed ha il tipico callo sulla spalla, esibito come un premio fedeltà dopo mezzo secolo di alzate. Ma ora solo lui può fare da interfaccia con il santo, come uno sciamano metropolitano.
Ormai la festa, nata contadina è diventata digitale, mescolando il sociale e i social. E i ricordi di chi la celebra a New York si mescolano in rete a quelli di chi la festeggia a Nola. Rilanciati da hashtag come #vivasanpaolino, #vivabrooklyn, #vivanola che si inseguono su Instagram. E costruiscono la nuova memoria collettiva di un paese sconfinato, delocalizzato, spaesato. Un paese che sta di casa in una cloud. È la transizione dal folkore al weblore. Con la comunità che diventa community.
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