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Il Vangelo in versione pop – il Venerdì di Repubblica

7 Dicembre 2018

Senza musica la vita sarebbe un errore, diceva il filosofo Friedrich Nietzsche. Vero o no, quel che è certo è che un Natale senza canti sarebbe una festa come un’altra, un qui pro quo del calendario. Forse perché il canto è l’espressione primordiale dell’armonia, la celebrazione della gioia, l’esplosione della vita. Fatto sta che la Natività si riconosce dalla colonna sonora. Inni o litanie, salmodie o melodie, novene o corali, canti di chiesa o canzoni pop, il risultato non cambia. Insomma Jingle Bells o jingle pubblicitari non fa differenza. A Natale luce e suono vanno a braccetto di default, perché le note sono le luminarie dell’anima, le intermittenze del cuore. E soprattutto rendono popolare la nascita del dio, traducono l’astrattezza del dogma in parole e musica orecchiabili, refrain e ritornelli ripetuti generazione dopo generazione. Come dire che i canti di Natale sono la versione pop delle Scritture, il Vangelo in dialetto. È per questo che sono strettamente legati alle tradizioni che fanno della nascita di Cristo una festa di popolo. Come quelle della Novena, vale a dire la preghiera che si recita nei nove giorni prima della Vigilia.

Nell’Italia di una volta a cantare e suonare le Novene erano i pastori e gli zampognari, proprio come quelli che nel presepe assistono alla nascita del Bambino celeste. Ma erano pastori in carne e ossa, che scendevano nelle città dalle alture appenniniche e dalle balze alpine per andare di quartiere in quartiere, di casa in casa a cantare il lieto evento. Questi artisti di strada facevano risuonare la Buona Novella in strumenti rudimentali e primitivi, come la cornamusa e la ciaramella, ricavati dallo stomaco della pecora, quasi a esprimere in parole povere la familiarità dell’umano e dell’animale, la fratellanza universale che è il fondo teologico del Natale. E che questa festa abbia il canto all’origine lo dice il Vangelo di Luca, quando racconta dell’angelo che annuncia ai pastori la nascita del Messia e subito dopo la sua voce si trasforma in un coro celeste.

In fondo anche nel più consumistico e mercificato dei nostri natali riecheggia questo unisono del creato che ha un bisogno assoluto della musica per esprimere fino in fondo il suo messaggio. Perché cantare, diceva Sant’Agostino, è pregare due volte.
Con la testa e con il cuore, con la pancia e con la gola. E se i primi inni che celebrano la Natività risalgono ai padri della Chiesa come Sant’Ambrogio, autore del solennissimo Veni, Redemptor Gentium, con l’andar del tempo musica e parole diventano più popolaresche.
Soprattutto da quando, nel 1223, San Francesco d’Assisi inventa il presepe vivente e fa dei pastori di Greccio i veri protagonisti della sacra rappresentazione.

Da allora i rituali natalizi si mescolano sempre di più agli usi e costumi della gente comune, diventano sempre più teneri e terreni, confidenziali e sentimentali. Con Gesù che diventa un bambolino, un fantolino, un bambeniello. Un santufrisculieddhu, come lo chiamano in Salento, e su nenneddu, in Sardegna. O un bamminu, come in Sicilia. «Susi Pasturi nun dormiri cchiù, lu viri che natu lu Bamminu Gesù» cantava la grande Rosa Balistreri, voce indimenticabile della tradizione siciliana, facendo dell’angelo annunciante un venditore di strada che lancia l’abbanniata, il grido rituale per attrarre gli acquirenti.

Ma i canti più famosi nascono con la modernità, man mano che il Natale esce dalle chiese per mescolarsi con la vita di ogni giorno e diventa progressivamente più simile alla nostra festa, sospesa tra sacro e profano, religione ed economia, affetti e consumi, raccoglimento e divertimento. È il caso delle carols inglesi, che prendono il nome dalla carola, un antico girotondo cantato, e diventano il simbolo natalizio per antonomasia. Tanto che Charles Dickens intitola proprio A Christmas Carol (Canto di Natale) uno dei suoi racconti più famosi. Tra le più conosciute c’è la celebre Adeste fideles, meglio nota come Venite adoremus, dovuta probabilmente a John Francis Wade, che l’avrebbe scritta nel 1740. La canzone, tradotta in inglese come O Come, All Ye Faithful, è diventata celebre grazie anche a una serie di interpretazioni che vanno dal classico più classico al pop più spinto. Da Giuni Russo ad Andrea Bocelli, da Laura Pausini ai Pentatonix, da Luciano Pavarotti a Papa Francesco.

Ma il più famoso dei nostri canti natalizi è senza alcun dubbio Tu scendi dalle stelle, scritto nel 1754 da Sant’Alfonso Maria dei Liguori, raffinato teologo ed evangelizzatore della plebe napoletana.
Una volta sarebbe stato definito un intellettuale organico. In realtà il vero titolo della canzone, originariamente in napoletano, è Quanno nascette Ninno. Fino alla metà del Novecento a Napoli la sua esecuzione costituiva un grande rito comunitario.
La sera del 24 dicembre, ogni famiglia si metteva in fila e faceva il giro della casa, poi usciva cantando e si univa alle altre in una processione condominiale che toccava tutti gli appartamenti del palazzo e poi del vicinato. Così la Santa Notte diventava una Visitazione generalizzata e la folla salmodiante illuminata dalle candele che andava su e giù per le scale sembrava un’apparizione. Di quest’armonia perduta Eduardo De Filippo rivela il guscio vuoto nella scena madre di Natale in Casa Cupiello, quando Luca guida il corteo domestico composto dal figlio Nennillo e dal fratello Pasquale, mentre intorno a loro scoppia la tragedia familiare. Abbigliati da re magi i tre cantano: «Tu scendi dalla stelle o mia Concetta, e io t’aggio cumprato ‘na bursetta».

Con ferocia lucidissima Eduardo fa affiorare quella che Giorgio Manganelli chiamava la magia sarcastica del Natale. La stessa che fa capolino tra fiocchi di neve e palle colorate in canzoni come White Christmas. Paradossalmente a scrivere questo leitmotiv della festa contemporanea fu un non cristiano, il celebre compositore Irving Berlin, al secolo Izrail’ Moiseevic Bejlin, ebreo e massone. Il grande mentore di Ginger Rogers e di Fred Astaire compose il pezzo di getto. Parole e musica gli balenarono all’improvviso in una notte d’inverno del 1940 a Londra, mentre era in taxi in compagnia dell’amica Patricia Wilcox. Nevicava forte e lei disse quasi tra sé e sé: «Quest’anno avremo un bianco Natale». E lui gridò eureka! La mattina dopo piombò in ufficio e disse alla segretaria: «Presto, prendi appunti, ho appena composto la miglior canzone che chiunque abbia mai scritto». Forse non la migliore, certamente tra le più sdolcinate.
Il che non le ha impedito di vendere milioni di dischi e di diventare una delle cover più eseguite di sempre. Da Bing Crosby a Linda Ronstadt, da Louis Armstrong ai Beach Boys, da Elvis a Barbra Streisand, da John Denver a Elton John, dai Platters a Otis Redding, da Frank Sinatra a Ringo Starr, dai Tre Tenori a Lady Gaga. Un parterre de roi per quello che è diventato l’inno del Natale globale. Superando alla grande hit come Stille Nacht, in italiano Astro del ciel, che quest’anno compie due secoli. A battersela con White Christmas c’è solo Jingle Bells, nata dall’estro di John Pierpont nel 1857 e diventata ormai il tormentone numero uno di mercati e mercatini di dicembre. Anche se l’autore in verità l’aveva destinata alla festa del Ringraziamento. Dal giorno del tacchino alla notte del Bambino, il passo non è breve. Ma qualche volta anche il Natale può essere un errore. Con o senza musica.

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Marino Niola
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