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Maschera e cibo? È una sorta di associazione obbligata per il Carnevale, perché era uno dei momenti grassi dell’anno, soprattutto nella società urbana e contadina tradizionale che era una società dell’indigenza. E il Carnevale era un momento in cui la tavola diventava protagonista. Era il momento degli eccessi, sia alimentari che di altra natura». A parlare è l’antropologo Marino Niola, docente di Antropologia dei simboli all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, che sarà fra i protagonisti del convegno sul Carnevale e il Mediterraneo che si terrà dal 28 febbraio al 2 marzo fra Melfi, Putignano e Matera attorno al tema “Maschera e cibo”.
Professor Niola, fino a quando il Carnevale ha conservato una dimensione di rottura ed eccezionalità?
«Almeno fino alle soglie dell’Unità d’Italia, quando la trasformazione della società, l’imborghesimento e la crescita del benessere diffuso, lentamente spogliano il calendario di tutte le sue valenze di eccesso e rendono il Carnevale più “decorativo”. L’effetto del benessere è quello di spalmare l’abbondanza su tutti i giorni del calendario. Questa tendenza esplode letteralmente dopo la seconda metà del Novecento, quando inizia la società dei consumi».
Oggi non v’è più traccia della natura primordiale della festa?
«Adesso c’è soprattutto una reminiscenza. Quelle maschere sono un bene culturale, attorno al quale la comunità si stringe e sul quale anche la politica investe».
In quali termini?
«La politica fa un investimento sulla festa che è anche di natura economica, non è un caso che gli assessorati alla Cultura siano protagonisti di un rilancio dei Carnevali. Si prenda l’esempio di Putignano che si è conquistato una grande fama anche per il carattere artistico dei carri e dei manufatti che hanno cambiato funzione rispetto al passato ma, al tempo stesso, ne hanno acquistata una nuova».
A cosa allude?
«Si sono perse molte delle valenze religiose e arcaiche della festa, perché oggi è Carnevale tutto l’anno, se non ci diamo limiti, o è Quaresima se ce li poniamo. Il punto è che, adesso, siamo noi a darceli. Oggi i carri di Putignano rappresentano dei beni culturali in movimento, un investimento estetico e sul tempo libero e, ovviamente, un attrattore turistico. Una delle differenze tra la festa di Putignano di oggi e quelle più antiche del mondo contadino è che quelle erano eventi mentre oggi le feste sono in parte dei prodotti complessi».
Quale valenza socioculturale attribuisce al Carnevale di Putignano?
«Una interna che riguarda più direttamente la comunità, dove la festa fa da collante sociale, e altre più esterne. Qui sono gli sguardi altri a posarsi sulla festa, a cominciare dai turisti. Non è un caso, appunto, che un Carnevale come quello di Putignano diventi un attrattore turistico sempre maggiore».
In quale tipologia lo inscrive?
«Dentro ci sono sia le dinamiche interne che quelle esterne. Sicuramente è difficile distinguere il rito dalla satira: nel Carnevale gli elementi si confondono. C’è una sovrapposizione di simboli: c’è il gioco ma, al tempo stesso, è tutto profondamente serio».
Decisamente più poveri, invece, appaiono i Carnevali della Basilicata e le loro maschere.
«Sono più vicini ai mondi contadini anche se, adesso, quegli stessi modelli vengono risucchiati in una domanda di festa che è più generale e li inserisce in una spirale fra turismo, intrattenimento e sfruttamento come beni culturali».
Si tratta, peraltro, di maschere fortemente ancorate alla terra e a una civiltà rurale, a cominciare dalle maschere di Tricarico.
«Non c’è dubbio. Nascono come sistemi di simboli prodotti dalla società contadina, anche se nel frattempo la società intorno è cambiata. Oggi le usa, ma ne fa un utilizzo differente. Anche il lavoro è diverso. Sicuramente l’orizzonte non è più quello del lavoro contadino di un tempo. Una volta fare il contadino non era solo un lavoro, ma una condizione di vita. Se pensiamo alla società di Rocco Scotellaro e a quella di oggi è chiaro che parliamo di due mondi completamente diversi».
Sicché, alla fine, anche in Basilicata la riscoperta delle maschere è funzionale alla promozione del territorio?
«Certo. Serve a una valorizzazione delle tradizioni e dell’economia di un territorio che investe nei suoi elementi identitari e sulla sua memoria per essere più attrattivo. Spesso nel Mezzogiorno d’Italia le feste erano dei momenti economici importanti. La differenza è che una volta quelle feste erano fenomeni interni alla comunità, tipici di quelle che gli antropologi inglesi chiamavano società face to face, dove tutti conoscono tutti e sono in relazione con tutti, mentre oggi siamo passati alla società face to Facebook dove ciascuno è connesso nella realtà fisica ma, al tempo stesso, fa parte di una comunità immateriale e questo si riverbera anche nelle feste».
Se dovesse immaginare un Carnevale rimasto più fedele a se stesso e alle proprie origini?
«Io sceglierei quello di Putignano, anche per la complessità della macchina della festa e per tutte le competenze che vengono messe all’opera per poterla realizzare. C’è una sorta di regia collettiva alla base di tutto. E mi pare che questa dimensione sia tuttora viva».
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