
La nostra storia nel tacchino in forma di carota – il Venerdì di Repubblica
Dalla carne vegetale al vegetale carneo. La prima mossa della simulazione alimentare l’ha fatta il mondo veggie, proponendo spezzatini di soia, polpette di piselli, hamburger di lupini, cotolette di tofu.
Adesso arriva la risposta del fronte carnivoro, che rovescia la prospettiva. E rilancia con la carota animale. Il suo nome è marrot, una crasi tra le parole meat, carne e carrot, carota. A mandarla sul mercato è Arby’s, un gigante del fast food statunitense. In realtà questo cibo mutante, di vegetale ha solo la forma. Perché si tratta di un petto di tacchino macinato e scolpito a forma di carota. A perfezionare il trucco è stata sufficiente una spruzzata di polvere di carota, giusto per dare un po’ di colore e sentore di ortaggio a un cibo che di nato dalla terra ha solo il prezzemolo, che imita il gambo della carota.
Qualunque sia il senso dell’operazione e indipendentemente dal suo successo, quel che emerge da queste forme di trompe-l’œil da tavola è che noi umani siamo dei mangiatori di simboli. Se così non fosse i vegetariani non avrebbero nessun bisogno di chiamare hamburger un ammasso di lupini.
E i carnivori non avrebbero alcuna ragione di definire carota un pressato di tacchino dipinto di arancione. Il fatto è che l’alimentazione umana, a differenza di quella animale, non è solo nutrizione, ma è passione. È gusto, piacere, desiderio, comunicazione, memoria. Come dire che solo in parte mangiamo per vivere. È molto più vero che viviamo per mangiare, perché attraverso il cibo mastichiamo e rimastichiamo la nostra identità, riveliamo chi siamo, cosa vogliamo e cosa non vogliamo. Ecco perché questi cibi finti, per il momento, più che dirci dove andiamo, ci ricordano da dove veniamo, fanno affiorare il nostro pregresso alimentare, la nostra storia gastronomica. Di cui resta la traccia nei nomi vecchi che diamo ai cibi nuovi. E che nessuna moda riesce a cancellare.
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