
Carlo Croccolo il finto tonto che amava la bella vita – la Repubblica
Come attore mi piaccio ma non mi stimo. In questa battuta spiazzante c’è tutto Carlo Croccolo. L’attore che aveva la diaspora nell’anima al punto da diventare veramente sé stesso solo quando faceva l’alter ego di qualcun altro. Quando prestava la sua voce a Totò, ma anche a Oliver Hardy, alias Ollio, o ad Harry Belafonte in Kansas City. A Vittorio De Sica e perfino all’austero Remigio da Varagine, il frate eretico de Il nome della Rosa impersonato da Helmut Qualtinger. Più che uno straordinario doppiatore Carlo Croccolo era un doppio, nel senso più profondo del termine. Come nella grande tradizione della Commedia dell’arte, deposito dinamico dei caratteri italiani poi ereditati dalla Commedia cinematografica. Dove gli attori sono sempre in tensione con il proprio volto. E ciascuno non può che essere due. Un po’ più di sé, un po’ meno di un altro. Ma costantemente in bilico tra più identità. Avvitato in un vertiginoso volteggio tra un carattere e il suo opposto. Tra due io estranei che condividono la stessa faccia.
Mi sono rassegnato a seguire la mia faccia diceva Croccolo facendo crollare impietosamente la retorica trombonesca che fa della vocazione attoriale una sorta di chiamata dall’alto. L’ho fatto per soldi, rincarava la dose con quell’espressione stralunata che aveva ogni Zanni della grande tradizione scenica italiana. Intelligente e sciocco, finto intelligente e finto sciocco, sognatore e scafato, pusillanime e imbranato. Buono come il bravo ragazzo e figlio di papà con lo sguardo stellante del Luigino di Miseria e nobiltà . O cattivo come Eros Cecconi, il suocero di Aldo Giovanni e Giacomo in Tre uomini e una gamba . Aveva una faccia da grullo ma da grullo metafisico, da seduttore sedotto dalla seduzione. Non per niente Carlo ha avuto più avventure di don Giovanni. Ma quasi involontariamente, spinto da una curiosità insaziabile che diventava una irresistibile apertura all’altro. Tanto irresistibile che perfino Marilyn gli cedette.
Ho vissuto attento a tutto, diceva spesso, attratto da tutto. E perciò era in grado di imitare tutti. Ma era molto più che un imitatore. La sua voce non si limitava a rifare quella dei personaggi doppiati. Li significava. Li possedeva e al tempo stesso ne era posseduto e così, senza sforzo, li faceva risuonare dentro di sé.
Per la stessa ragione non è stato solo un caratterista. Ma un tuttofare dell’attorialità, cioè della personificazione. Che è possibile solo a chi è capace di scorrazzare sui pattini a rotelle tra una persona e l’altra. Proprio quel faceva Croccolo a Cinecittà un giorno di tanti anni fa, mentre si girava Totò lascia o raddoppia . Irritato da quel moto perpetuo, il principe de Curtis lo chiamò e con la scusa di provare una scena, rinchiuse lo scanzonato pattinatore in un armadio e ce lo lasciò fino alla fine delle riprese. Ma lui a Totò non sapeva ribellarsi e rimase lì zitto e muto. Esattamente quel che succedeva in film come 47 Morto che parla o Signori si nasce , dove Carlo faceva la parte del maggiordomo, mai pagato ma non per questo meno devoto. Ancorché supersfruttato, al punto da fare tre lavori diversi, cuoco, cocchiere e cameriere. Mugugnava ma non se ne andava, come un Pulcinella o uno Sganarello. Forse perché come diceva Eduardo con una certa malignità, non aveva “cazzimma”. O, piuttosto, perché aveva il coraggio della libertà. Che lo portava a dissipare la vita, il denaro e anche sé stesso. Senza prendere niente troppo sul serio.
Regalava rose e champagne alle sarte di scena perché anche loro provassero un’emozione. O faceva mance iperboliche ai camerieri. Quasi si sentisse in dovere di redistribuire la ricchezza in cambio di quella vita con le bollicine che lui si beveva così avidamente. Si favoleggiava sulle sue mani bucate, auto di lusso ma anche aliscafi e perfino un aereo troppo al di sopra delle sue possibilità. Negli anni Cinquanta si arrivò a parlare di “croccolite” per definire una forma di spreco immorale, insomma un cattivo esempio. O, se si preferisce, una dolce vita prima della dolce vita.
Anche la sua napoletanità era soft. Piena di esprit ma senza folklore, senza eccessi di colore locale. Incarnava quel fondo partenopeo dell’essere, fatto di tolleranza e di leggerezza, che appartiene a tutto il mondo. Perché, come dice il grande psicanalista svizzero Wolfgang A. Martin, svolge un compito umano del tutto particolare. È una categoria dello spirito. Esattamente l’opposto dell’integralismo identitario che oggi va a ruba sul mercato dell’immagine. Tanto che diventò famoso nel 1950 interpretando il personaggio di Pinozzo Molliconi, il soldatino “del’Italia scetentrionale” in Libera uscita di Duilio Coletti. Il prototipo del polentone, senza doppie e senza doppiezza. Fu subito un tormentone, tutti i bambini napoletani lo imitavano di gusto.
In seguito prese la cittadinanza canadese e si comprò perfino la casetta in Canadà. E comunque, fra alti e bassi non perse mai il suo disincanto autoironico. A un giornalista che gli chiedeva come avrebbe sintetizzato la sua vita rispose “con una pernacchia”. Ma come Dio comanda.
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